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Clima, è questa la Terza guerra mondiale

I rapidi cambiamenti in atto hanno conseguenze planetarie devastanti: lo stiamo vedendo. Ma paesi ricchi e paesi poveri continuano a non trovare una linea d’azione comune

Una Terza guerra mondiale “parallela”, fatta di “effetto serra” e devastanti cambiamenti climatici è già cominciata. Ma noi facciamo finta di non accorgercene o, almeno, non le prestiamo tutta la dovuta attenzione, perché ci appare come una tragedia che finirà per riguardare solo i posteri. E invece no: il rapido degrado ambientale, ripercuotendosi sull’innalzamento delle temperature globali, sta sconvolgendo il pianeta, in modo molto più rapido del previsto. Questo provoca, prima di tutto, una significativa alterazione del ciclo delle piogge, che in vaste regioni temperate hanno ormai perso la loro “gradualità”. Dando vita ad eventi estremi, alternati a lunghi periodi di siccità. Ciò si ripercuote a catena, in senso tragicamente negativo, sulla disponibilità di risorse alimentari e acqua potabile o per irrigazione, scatenando o esacerbando conflitti per il loro accaparramento.
Le pesanti ricadute sulle produzioni agricole, gli allevamenti di bestiame e la pesca, inoltre, sono anche determinate dallo scioglimento dei ghiacciai polari e degli iceberg. Le loro acque di fusione, immettendosi nella circolazione convezionale delle grandi correnti oceaniche, arrivano a deviarne il flusso, modificandone il percorso e il loro impatto “calmieratore” sulle temperature. Un effetto perverso che già si comincia a intravvedere, marcatamente, con la Corrente del Golfo che lambisce l’Europa. Ma che periodicamente appare anche al largo delle coste del Perù, con la deviazione della Corrente di Humboldt che provoca l’imponente fenomeno climatico conosciuto come «El Nino». Si tratta di un evento talmente impattante, su scala globale, da avere conseguenze disastrose anche in scacchieri geografici distanti migliaia e migliaia di chilometri.
Eppure, a fronte di un’emergenza sempre più evidente – la temperatura media globale dell’aria tra gennaio e settembre 2024 è stata di 1,54 °C al di sopra della media preindustriale – la comunità politica internazionale reagisce non solo senza la necessaria convinzione, ma anche in maniera “asimmetrica”. In sostanza, mentre i Paesi avanzati studiano forme (tardive) di autocontrollo dello sviluppo, che cercano di estendere a tutti gli altri, il Sud del mondo “frena”. O, meglio, chiede più tempo per abbracciare la filosofia delle “emissioni zero” di CO2 (la cui concentrazione attuale ha superato i 420 ppm, cioè + 50% rispetto ai livelli ricostruiti alla fine del XVIII secolo), composto di scarto dei carburanti fossili, imputato numero uno dell’innesco del temuto “effetto serra”.
Una tale contrapposizione è presto spiegabile. Le energie “pulite”, allo stato attuale, tra spese di impianto, produzione e distribuzione, costano (per ora) nettamente di più di quelle fossili. Per cui, l’utilizzo di olio combustibile, gas o, peggio ancora, carbone, consente ai Paesi a “nuova industrializzazione” di bruciare più agevolmente le tappe per lo sviluppo. È la vecchia, atavica guerra tra ricchi e poveri, che ogni anno l’Onu cerca di evitare, organizzando una conferenza internazionale sul clima che dovrebbe mettere tutti d’accordo. Questo sulla carta perché, nei fatti, tutte le COP (Conference of the Parties) finora pomposamente proposte hanno visto solo molte promesse e pochi effettivi riscontri.
L’ultimo buco nell’acqua è stato quello di Baku, in Azerbaigian, il mese scorso, dove, paradossalmente, si è discusso di “emissioni zero” in un Paese che campa producendo ed esportando milioni di tonnellate di idrocarburi. Non a caso il Presidente Ilham Aliyev, dando il benvenuto ai partecipanti, ha detto che petrolio e gas «sono un dono di Dio». Certamente, aggiungiamo noi, sono un affarone per lui e per l’Azerbaigian. Così come rappresentano una vera manna dal cielo anche per altri due “inquinatori”, come l’Arabia Saudita e l’Egitto, che pure hanno ospitato le ultime due conferenze sul clima. Incongruenze.
Anche perché a Baku è continuata furibonda la lite tra i ricchi “ex inquinatori” ora convertiti (gli occidentali) e i tutti i poveri del mondo (o presunti tali) sulla necessità di eliminare progressivamente petrolio, gas e carbone. Tutti concordano che, in questo momento, la “green energy” ha costi complessivi nettamente superiori a quella fossile. E allora? I Paesi ricchi, per cercare di essere convincenti, si sono messi le mani sul petto. Cioè, il punto dove sta il cuore, ma anche il portafogli. E così hanno deciso di “indennizzare” gli sforzi del Sud del mondo, verso il fatidico Everest delle “emissioni zero”, con un contributo di 300 miliardi di dollari l’anno. Che però è stato giudicato, dall’imponente blocco degli Stati a nuova industrializzazione, poco più di una “mancia per tacitare le coscienze”. Insomma, a Baku chi non vuole essere obbligato a rinunciare al “fossile” (la maggioranza del pianeta) chiede, tanto per cominciare, un “obolo” annuo ai ricchi di almeno un trilione e passa di dollari. Ovverossia, almeno quattro volte di più di quanto proposto (abbastanza disinvoltamente) dagli occidentali, improvvisamente diventati “virtuosi”, anche perché i loro cittadini rischiano di defenestrarli.
Gli elettori vogliono, in definitiva, “politiche verdi”, anche se poi i conti finali non quadrano. A questo punto, lo scenario comincia a essere abbastanza chiaro: chi se lo può permettere, vuole un mondo più pulito. E chi, invece, ancora deve mettere d’accordo il pranzo con la cena, s’impegna (a chiacchiere) per il futuro, ma nei fatti continua a bruciare tutto ciò che gli capita a tiro, pur di incrementare un Pil che fatica a tenere testa all’espansione demografica e alla salvaguardia della curva dei livelli di “qualità della vita”, che in molti casi significa “linea della sopravvivenza”.
Da questo scontro titanico, tra ricchi e poveri, nasce la grande crisi del “modello climatico” studiato a tavolino dagli ingegneri ambientali. Intanto, Paesi come gli Stati Uniti, (e a ruota, di rimbalzo, l’Europa) hanno già fatto le loro scelte strategiche, puntando decisamente sulla “green energy” e non solo per ragioni squisitamente ambientalistiche. L’amministrazione Biden ha saputo furbescamente sfruttare la guerra in Ucraina e le relative sanzioni economiche, applicate ai combustibili fossili russi, per far decollare la sua industria dei motori elettrici. Così, i “grandi inquinatori”, come Cina e India, potranno continuare a bruciare carbone, petrolio e gas, accusando i “ricchi” di volere impartire solo lezioni di comodo. Mettere tutti d’accordo non sarà per niente facile.

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