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L’arma davvero letale? I dazi. Se le guerre si combattono con l’economia

Dopo lo choc pandemico e il terremoto nella filiera delle materie prime, il futuro ci appare più fosco e aperto ad ogni incertezza

La “geoeconomia” sta sostituendo la globalizzazione. Usciamo da una “tempesta perfetta”, che ha sconvolto il funzionamento del mercato mondiale e niente sarà più come prima. La fase indefinita di espansione produttiva e di aumento della ricchezza, teoricamente promessa dai “sacri” testi di un capitalismo di cartone, si è rivelata fasulla. Lo specchio di tutto questo è rappresentato dall’ultimo quinquennio, un periodo in cui si sono sommati lo shock pandemico e l’interruzione della catena di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati ad alto valore aggiunto, provenienti dall’Asia. Due eventi che, sommati alla guerra in Ucraina, con i suoi perversi effetti collaterali sul mercato dell’energia, hanno poi scatenato una potente ondata recessiva a livello mondiale.
Il massiccio intervento dei governi, che hanno reagito con una politica, spesso sproporzionata, di “deficit spending”, ha infine sollevato un vero e proprio tsunami inflazionistico. Il rovinoso rialzo dei prezzi, partito dall’America, dopo i giganteschi stimoli monetari voluti da Biden (trilioni di dollari) si è rapidamente esteso all’Europa e al resto del pianeta. Per quasi due anni le Banche centrali hanno dovuto lottare, strenuamente, attraverso continui rialzi dei tassi, per salvaguardare la stabilità monetaria. Il risultato è che l’inflazione si è abbassata drasticamente, sotto il 2%, ma la crescita in Europa è rimasta stagnante. O quasi.
La Germania è in recessione e l’Italia crescerà sotto 1%, nel 2025. Gli Usa sembrano più tranquilli, ma hanno accumulato un deficit esplosivo. Mentre i cinesi sono più agitati, perché puntano a raggiungere un ambizioso 5% di Pil. Intanto, Paesi come gli Stati Uniti, (e a ruota, di rimbalzo, l’Europa) hanno già fatto le loro scelte strategiche, puntando decisamente sulla “green energy” e non solo per ragioni squisitamente ambientalistiche. L’Amministrazione Biden ha saputo furbescamente sfruttare la guerra in Ucraina e le relative sanzioni economiche, applicate ai combustibili fossili russi, per far decollare la sua industria dei motori elettrici. Sfidando in modo aperto la produzione cinese e mirando, con una politica di aiuti di Stato mascherata, a raggiungere una sorta di monopolio occidentale nel settore. Così facendo ha praticamente messo con le spalle al muro tutta la produzione automobilistica europea, stretta tra i vincoli draconiani al fossile e le “sirene” degli aiuti americani, che esortavano le aziende del Vecchio continente a chiudere bottega e a trasferirsi Oltreatlantico.
La marcia a tappe forzate per raggiungere le “emissioni zero”, accelerando i tempi della transizione verso le energie rinnovabili, ancorché lodevole, ha però avuto un pesante effetto collaterale: ha messo immediatamente in crisi di costi produttivi gran parte dell’industria manifatturiera. Finanziamento allo sviluppo: va rivisto il ruolo del Fondo monetario internazionale, troppo spesso intriso di connotazioni politiche e influenzato dal “pensiero unico” di Wall Street. In questo senso, la crescita dei Paesi del blocco dei “Brics” (i “non allineati” con l’Occidente) è allo stesso tempo una sfida e un invito a cambiare le relazioni economiche internazionali col Sud del mondo.
Certo, molto dipenderà dai nuovi assetti politici che interessano l’America. Il nuovo Presidente, Donald Trump, è decisamente contrario a continuare a combattere guerre aperte o a intraprenderne di nuove. La sua filosofia neo-isolazionistica, però, non parte da valutazioni di tipo etico, ma solo da argomentazioni squisitamente speculative: le guerre “costano”. E fra storno di risorse primarie, alterazione dei cicli commerciali e distorsioni indotte sui mercati finanziari, sono un “affare in perdita” per qualsiasi Paese. Specie per una superpotenza come gli Stati Uniti. La “Dottrina Trump”, dunque, messi da parte obici e bombarde, non certo per fini umanitari, vuole risolvere le dispute internazionali da un altro punto di forza: quello dell’economia.
I prossimi bagni di sangue, insomma, saranno tariffari, con i dazi doganali usati come vera e propria clava. Una sorta di gigantesca “arma impropria”, capace di esercitare pressioni insostenibili sulla dialettica diplomatica. Parafrasando Von Clausewitz, si potrebbe dire che le guerre commerciali di Trump rappresenteranno la continuazione delle guerre convenzionali con altri mezzi. E come tutti i conflitti mondiali, causeranno morti e feriti, anche se non come quelli che siamo stati abituati a vedere nei conflitti tradizionali, combattuti sui campi di battaglia. Le prossime, insomma, saranno guerre “diverse”, perché nel nome del profitto economico ammazzeranno lo stesso, ma senza spargimento di sangue apparente. Sarà un’agonia diluita nel tempo perché, molto spesso, la morte per fame non lascia testimoni.

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