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Tragedie sul lavoro, e ancora continuiamo a chiamarle «morti bianche»

Sono vittime senza memoria. Croci che sussultano nel giorno della tragedia come una folata di polvere che transita sulla coscienza collettiva, prima di depositarsi nel cimitero invisibile della strage silenziosa. Le chiamano “morti bianche”, forse perché le loro storie sono pagine che sbiadiscono in fretta e alle quali si riconosce solo il diritto a un numero senza voce.
Il 2024 è stato un tornante nella curva dei morti sul lavoro. Dopo anni di progressiva discesa il dato risale, con un aumento di vittime (oltre 1000) che segna una brusca inversione di tendenza. È la spia di un’ombra luttuosa, riflette sintomi patologici che rischiano di incarnarsi attraverso i varchi della precarietà, della negligenza, dello sfruttamento, laddove la sicurezza è un dettaglio trascurabile. Un costo da evitare.
Gli appassionati di statistiche ci dicono che negli anni Sessanta le «morti bianche» erano quattro volte di più. Il progresso civile ha ridimensionato un fenomeno che, tutto sommato, potrebbe apparire quasi come un sacrificio fisiologico, culturalmente ancorato alla categoria delle “disgrazie”, del destino beffardo, della inevitabile e sfortunata coincidenza. Eppure quelle pagine bianche raccontano altre verità indifese, richiamate nei copioni del giorno dopo: diritti negati, deregulation, appalti spremuti da scellerati ribassi d’asta e poi vivisezionati. Nel 2024 è stato il settore delle costruzioni a contare il numero più alto di vittime. La fascia d’età più colpita dagli infortuni mortali sul lavoro è quella tra i 55 e i 64 anni. L’anno che va in archivio è stato scosso dalle tragedie degli operai travolti dal treno a Brandizzo, dell’esplosione della centrale di Bargi, del crollo dell’ipermercato di Firenze, della strage di Casteldaccia. E c’è un filo nero che unisce queste stragi bianche, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «Garantire condizioni di lavoro sicure significa rispettare la vita e il valore di ciascuna persona, perché il lavoro è luogo di crescita e realizzazione personale e non può costituire un rischio per la propria incolumità. Ogni vita persa, ogni vita compromessa chiama un impegno corale per prevenire ulteriori perdite della salute e della dignità di chi lavora. La sicurezza sul lavoro, oltre che una prescrizione costituzionale, è anzitutto una questione di dignità umana».
La dignità mutilata di Satnam Singh, 31enne indiano che aveva perso un braccio mentre stava lavorando nei campi intorno a Latina. I suoi caporali lo hanno lasciato davanti a casa col braccio nella cassetta degli ortaggi che raccoglieva. È morto in ospedale. Ma c’è anche chi si spegne lentamente, corroso dalle cosiddette “malattie professionali”, etichetta bugiarda sulle croci di migliaia di operai per anni esposti ai veleni, come l’amianto. Tra il 2010 e il 2020 ogni anno in Italia – secondo un rapporto dell’Istituto superiore della Sanità – sono scomparse per mesotelioma in media 1.545 persone, 1.116 uomini e 429 donne.
Sono trascorsi 55 anni da «La tosse dell’operaio» di Pasolini. E oggi le vittime del lavoro sono come colpi di tosse che rivendicano attenzione, protezione, cura. Rispetto.

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