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Netanyahu alimenta lo scontro con Riad: “Lo Stato palestinese? In Arabia Saudita”

Continua a dichiararsi fiducioso: «Non solo penso che sia fattibile, penso che accadrà»

Benyamin Netanyahu rilancia l’ipotesi di un futuro della Striscia di Gaza targato Usa e insiste sul «trasferimento volontario» dei palestinesi fuori dall’enclave, innescando dure reazioni da parte dell’Arabia Saudita, tra i più critici del piano promosso da Donald Trump. «I sauditi possono creare uno Stato palestinese in Arabia Saudita, hanno molta terra laggiù», ha dichiarato polemicamente il premier israeliano, allontanando ulteriormente la possibilità di una normalizzazione con il Regno, che lega ogni apertura diplomatica alla nascita di uno Stato palestinese. Il clima si fa teso mentre proseguono le operazioni per il rilascio degli ostaggi: Hamas ha consegnato, con alcune ore di ritardo, la lista dei tre uomini civili che saranno liberati nel quinto round di scambio di prigionieri: Eli Sharabi, Ohad Ben Ami e Or Levy. In cambio, Israele rilascerà 183 prigionieri palestinesi, come precisato dalla fazione islamica.

Netanyahu: «Gaza era uno Stato palestinese e abbiamo avuto un massacro»

«C'era uno Stato palestinese, si chiamava Gaza. Gaza, guidata da Hamas, era uno Stato palestinese, e guarda cosa abbiamo ottenuto: il più grande massacro dall’Olocausto», ha affermato Netanyahu, ribadendo che non potrà esserci pace finché Hamas resterà al potere. Il premier israeliano ha inoltre escluso qualsiasi accordo che «metta in pericolo lo Stato di Israele», rispondendo indirettamente alla condizione saudita di riconoscere uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti.

Dopo l’attacco del 7 ottobre, il processo di distensione tra Israele e Arabia Saudita ha subito un arresto, ma Netanyahu continua a dichiararsi fiducioso: «Non solo penso che sia fattibile, penso che accadrà», ha detto durante la sua visita a Washington. Tuttavia, Riad mantiene una posizione rigida, ribadendo che non ci saranno aperture diplomatiche senza garanzie concrete sulla nascita di uno Stato palestinese e condannando ogni ipotesi di trasferimento forzato dei palestinesi.

Pressioni interne e mosse diplomatiche

Israele prosegue nella sua strategia, sostenendo il piano delineato da Trump, che però ha chiarito di non avere «fretta» di implementarlo e di non prevedere lo schieramento di truppe americane nella Striscia. Nel frattempo, il capo del Comando Centrale Usa (Centcom), generale Erik Kurilla, ha incontrato in Israele il capo dell’Idf Herzi Halevi per fare il punto sulla situazione. Secondo Axios, il segretario di Stato Usa Marco Rubio dovrebbe visitare la regione dopo la conferenza sulla sicurezza di Monaco (14-16 febbraio), con tappe in Israele, Emirati e Arabia Saudita.

Nel contesto interno, il governo israeliano cerca di limitare le voci critiche: dopo aver ordinato di preparare un piano per i trasferimenti «volontari» dei palestinesi da Gaza, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha ammonito funzionari e vertici militari dal criticare il piano Usa. Il maggior generale Shlomi Binder, direttore dell’intelligence militare, è stato rimproverato per aver segnalato il rischio di disordini in Cisgiordania dopo le dichiarazioni di Trump. «Non sono contro il piano Usa – ha chiarito Binder – nel mio ruolo ho solo presentato le possibili implicazioni».

Nel frattempo, il fragile cessate il fuoco continua a reggere con difficoltà. Hamas ha accusato Israele di non rispettare i termini dell’accordo, impedendo l’arrivo della quantità minima di aiuti umanitari prevista e bloccando l’ingresso di escavatori per la rimozione delle macerie. Una situazione che potrebbe avere conseguenze sul rilascio degli ostaggi ancora nelle mani della fazione islamica. Si attendono sviluppi anche sui negoziati per la seconda fase della tregua.

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