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Mafia, il giallo della presunta morte di Giovanni Motisi, detto "U Pacchiuni": il sicario di Riina in fuga dal 1998

L’Ambasciata italiana a Bogotà sta verificando se Giovanni Motisi, inserito in Cosa Nostra e nella lista dei latitanti più pericolosi, sia davvero morto in una clinica della località colombiana di Cali, come hanno sostenuto alcuni media italiani nelle ultime ore. Motisi, 66 anni, condannato a diversi ergastoli e nella lista dei fuggitivi di «massima gravità» dal 1998, era in cura per cancro in un centro medico di Cali, dove era entrato con un nome falso. Verifiche necessarie nonostante il fatto che, secondo alcuni collaboratori della giustizia, Motisi era fuggito nella zona di Agrigento, in Sicilia.

Su delega della Procura di Palermo, la polizia sta sentendo, in Sardegna, il fotoreporter Antonello Zappadu che, ieri, ha pubblicato su Gente la notizia della morte, in una clinica colombiana, del boss latitante Giovanni Motisi, l’ultimo capomafia ricercato di Cosa nostra. La Procura che indaga sulla latitanza di Motisi, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’ex capo della Mobile di Palermo Ninni Cassarà, sta facendo accertamenti per capire se le informazioni in possesso di Zappadu siano vere.

L’anno scorso, la polizia italiana ha diffuso il nuovo profilo del mafioso, elaborato con un sistema di individuamento fisionomico progressivo. Motisi, conosciuto come U pacchiuni, uomo di fiducia e sicario di Totò Riina, è uno dei capi mafiosi più potenti di Palermo, è stato condannato l’ultima volta nell’aprile del 2023. È ricercato in Italia dal 1998 per omicidio, dal 2001 per associazione mafiosa e dal 2002 per omicidio, mentre l’ordine internazionale di cattura è stato emesso il 10 dicembre 1999.

Nel box in lamiera del residence di viale Michelangelo in cui riceveva amici, sottoposti e sodali, il boss di Pagliarelli Antonino Rotolo, agli arresti domiciliari per motivi di salute, vide presentarsi, nel 2005, il costruttore Francesco Pecora: la richiesta era singolare, un’autorizzazione al divorzio tra la figlia dell’imprenditore ritenuto vicino alle cosche e Giovanni Motisi, 66 anni, detto il "Pacchione", il grasso, all’epoca latitante già da sette anni, il sicario prediletto dal capo dei capi, Totò Riina. Una delle prove dell’esistenza in vita di Motisi, che aveva retto il mandamento di Pagliarelli mentre Rotolo si trovava in carcere e che aveva dovuto cedergli lo scettro dopo che il capo era andato in detenzione a casa, perché - grazie a magheggi vari - riusciva a farsi passare per malato grave. Quel giorno Rotolo fu secco e irremovibile e a Pecora rispose di no: «Nelle nostre famiglie queste cose non si usano».

Già vent'anni fa però quella richiesta di separazione era stata interpretata anche come un tentativo di dissimulare la morte di Motisi, come se la moglie, dovendo tenere segreto il decesso del marito, volesse comunque liberarsi da quel legame, ingombrante anche sotto il profilo penale e delle misure di prevenzione. La separazione comunque non si fece. E la reale sorte di Motisi, sposato e nella lista dei latitanti più pericolosi, è apparsa spesso incerta, anche di questi tempi, se è vero che l’ambasciata italiana a Bogotà si è mobilitata per verificare le notizie della sua morte in una clinica della località colombiana di Cali, come rilanciato da alcuni media.

Pochi giorni fa, nella conferenza stampa servita per illustrare il maxiblitz dei carabinieri con 181 provvedimenti restrittivi, il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, era stato sibillino ma chiaro: «Per noi i latitanti non sono superlatitanti perché prima o poi li prendiamo - aveva detto - e nel caso di Motisi lo dobbiamo a Ninni Cassarà e Roberto Antiochia». Di fatto «U Pacchiuni» è uno dei pochissimi ancora liberi, sui quali pende un ergastolo per la strage di viale Croce Rossa del 6 agosto 1985, vittime appunto il vicequestore e capo della Squadra mobile e l’agente che lo proteggeva. A lungo si è ipotizzata la morte di Motisi, ma nel periodo a ridosso della cattura di Matteo Messina Denaro (16 gennaio 2023) era stato diffuso un suo identikit realizzato con la tecnica di invecchiamento al computer dell’immagine «certa» più recente.

 Motisi è dunque apparso nuovamente come vivo e vegeto, anche dopo la cattura di un altro latitante, Giuseppe Auteri, reggente del mandamento di Porta Nuova, arrestato il 4 marzo scorso non lontano dalla stazione centrale di Palermo: nel suo covo c'erano nuove tracce dell’esistenza in vita del «Pacchione».

Già in altre inchieste e blitz antimafia di aprile 2021 (operazione Brevis) e del 2020 (operazione White Shark) erano venuti fuori nuovi indizi, legami, collegamenti. L’ultima immagine «vera» e sorridente ritraeva Motisi alla festa di compleanno della figlia, nell’ottobre del 1999, quando era in fuga già da un anno. Una visita alla famiglia fatta correndo mille rischi e protetta da estremi accorgimenti, come le lenzuola bianche sulle mura e sul mobilio per celare il posto che ospitò il brindisi, poi individuato in una villa del quartiere Uditore, dove i carabinieri trovarono una fitta corrispondenza tra lui e la moglie, Caterina Pecora. Regali e vestiti, segno della presenza più o meno continuativa in città del boss, che avrebbe affidato a persone di fiducia i doni per la donna. E pizzini con l’annuncio dell’arrivo di un falegname per arredare una camera da letto o l’invito a passare dal fioraio per «ritirare un pensierino». Per evitare rischi la moglie doveva contattarlo da una cabina pubblica. Poi era sparito nel nulla.

Nel corso degli anni, la procura di Palermo non ha mai smesso di vagliare tutti gli spunti, che hanno portato gli investigatori anche in Spagna, in Inghilterra, in Sudamerica e in Francia. Motisi era uno dei killer di fiducia di Totò Riina. Secondo un collaboratore di giustizia, era presente anche quando si parlò per la prima volta di uccidere il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Di lui hanno parlato tanti pentiti, in tempi recenti anche l’ex capomandamento di Belmonte Mezzagno (Palermo), Filippo Maria Bisconti, che lo dava per vivissimo fino almeno all’autunno 2018, quando Bisconti era tornato in cella, per poi decidere di collaborare con la giustizia, nel dicembre di sette anni fa. Nell’operazione White Shark, in cui era coinvolto il boss dell’Arenella Gaetano Scotto, quest’ultimo parlò del «pacchione» in un’intercettazione del 14 luglio 2017. In quella conversazione Scotto disse di aver tentato di contattarlo ma che Motisi avrebbe rifiutato ogni forma di dialogo. Un fatto che lo avrebbe molto irritato.

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