
Il 18 maggio 2023 Giampiero Gualandi e Sofia Stefani avrebbero firmato un «contratto di sottomissione sessuale». Ne hanno parlato nel processo a carico dell’ex comandante della polizia locale di Anzola, accusato dell’omicidio della giovane collega, la procuratrice aggiunta Lucia Russo e l’avvocato Andrea Speranzoni, difensore di parte civile per la famiglia Stefani, nei loro interventi di richiesta delle prove. Nel contratto, è stato riferito in aula, Gualandi si «autodefiniva padrone, colui che tutto può sulla sua schiava». In un passaggio si diceva: «Io signore e padrone mi impegno a dominare l’anima della mia sottomessa».
La difesa: il contratto era un gioco
«Il contratto di sottomissione viene dal libro '50 sfumature di grigio' uno dei successi editoriali del 2011, lo si trova nel capitolo 11. Ci sono siti Bdsm da cui si possono scaricare contratti di questo tipo. Era un gioco, non ha nessuna validità, nessuna efficacia giuridica, nessuna possibilità di condizionare comportamenti. Nella vita sessuale gli adulti possono fare quello che vogliono». Lo ha spiegato l’avvocato Claudio Benenati, uno dei difensori di Giampiero Gualandi, ex comandante della polizia locale di Anzola imputato per l’omicidio della 33enne Sofia Stefani, con cui aveva una relazione extraconiugale, replicando alle affermazioni della pubblica accusa che ha citato il «contratto di sottomissione sessuale» firmato dall’imputato e dalla vittima il 18 maggio 2023, circa un anno prima dell’omicidio. Anche l’altro difensore di Gualandi, avvocato Lorenzo Valgimigli, ha avvisato la Corte di assise, rivolgendosi ai giudici, di fare attenzione «a chiunque cerchi di tirarvi per la giacca su pregiudizi di tipo morale». «In quel contratto i protagonisti sono un comandante e un agente, si colloca tutto nel contesto lavorativo di Sofia Stefani», ha ribattuto poi l’avvocato Andrea Speranzoni, difensore di parte civile per i genitori della vittima.
Il pm: 'Gualandi prigioniero delle sue bugie'
«Nei concitati giorni che portarono all’omicidio, Gualandi si trovava prigioniero di un castello di menzogne da lui stesso costruito». Lo ha detto la procuratrice aggiunta di Bologna Lucia Russo, intervenendo nell’aula della Corte di assise per sostenere le richieste di prove nel processo sull'omicidio della vigilessa Sofia Stefani, per cui è imputato l’ex comandante della polizia locale di Anzola Emilia Giampiero Gualandi, 63enne. Gualandi risponde dell’omicidio volontario della 33enne, ex collega, con cui aveva una relazione extraconiugale. Stefani è stata uccisa il 16 maggio 2024 da un colpo partito dalla pistola di ordinanza di Gualandi nell’ufficio dell’uomo, al comando di Anzola. L’imputato, per la prima volta presente in aula, completo grigio gessato e seduto a fianco dei suoi difensori, avvocati Claudio Benenati e Lorenzo Valgimigli, ha sempre sostenuto l’ipotesi incidente, uno sparo esploso per errore durante una colluttazione. «Ma come si vedrà dalle consulenze tecniche - ha detto sul punto la pm Russo - sull'arma non sono state trovate tracce né biologiche né dattiloscopiche di lei, ma solo dell’imputato». Nel ricostruire «la tormentata relazione» tra i due, la pm ha ricostruito come questa fosse fortemente squilibrata per l’età e per la vulnerabilità della Stefani e ne ha ricostruito la "ciclica altelenanza» di momenti di quiete e tensione, «fino al tragico epilogo». Un rapporto che si interruppe per pochi giorni a fine aprile 2024, a seguito della casuale scoperta della moglie di Gualandi, ma l’uomo, ha detto la pm, invece che ammettere i fatti e assumersi le proprie responsabilità si inventò che era conclusa da tempo e che era la giovane donna che continuava a perseguitarlo. Secondo la Procura la relazione riprese a pochi giorni di distanza, «nella piena inconsapevolezza della moglie». «Nella fase che precede l'omicidio, Gualandi assume comportamenti di assoluta doppiezza, mandando alla Stefani messaggi confermativi del rapporto affettivo e sessuale mentre alla moglie, negli stessi minuti, scriveva di essere tormentato da Stefani». In questo senso sarebbe quindi stato prigioniero del «castello di menzogne».
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