
Fu un gesto semplice, ma dal significato immenso. A pochi mesi dalla sua elezione, Papa Francesco scelse Lampedusa come prima meta del suo pontificato. Non Roma, non una capitale del mondo, ma un’isola di confine, simbolo delle speranze e delle tragedie legate all’immigrazione. Un viaggio che non era previsto nei programmi ufficiali, ma voluto con urgenza dal Papa stesso, colpito dalle notizie dei continui naufragi nel Mediterraneo.
Ad accoglierlo, una comunità scossa da lutti ricorrenti, stanca di essere lasciata sola di fronte a un’emergenza diventata ormai strutturale. In quel luglio del 2013, Francesco arrivò a bordo di una motovedetta della Guardia Costiera, accompagnato dal cardinale messinese Franco Montenegro, accolto da un mare calmo e da centinaia di fedeli, migranti e operatori umanitari.
Celebrò una messa sobria nello stadio dell’isola, usando un altare costruito con legno recuperato dai barconi dei naufraghi. Fu lì che, con parole dure e accorate, denunciò la “globalizzazione dell’indifferenza” che ci rende ciechi di fronte al dolore degli altri. “Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca?”, chiese. “Per chi piange la nostra società?”
La visita fu un punto di svolta. Non solo per l’agenda della Chiesa cattolica, che da quel momento fece della questione migratoria uno dei cardini della sua azione pastorale, ma anche per il dibattito pubblico europeo, che non poté più ignorare il grido silenzioso che arrivava dal mare.
Papa Francesco non portò soluzioni politiche, ma il peso morale di una Chiesa che, attraverso il suo leader, si schierava senza ambiguità dalla parte degli ultimi. Il suo gesto fu un appello alla coscienza collettiva: una carezza ai migranti, un pugno allo stomaco per chi preferisce voltarsi dall’altra parte.
Ancora oggi, a distanza di anni, quella prima visita a Lampedusa resta una delle immagini più forti e simboliche del pontificato di Francesco. Un inizio fatto non di protocolli, ma di prossimità. Una profezia lanciata dal margine del mondo.
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