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L'ennesima sorpresa dello scrittore messinese Stefano D'Arrigo: quelle «anime morte», ma che stanno in Sicilia

Scoperto da Walter Pedullà, grande amico di Stefano, «Il compratore di anime morte» è conservato in forma di dattiloscritto con correzioni autografe presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del “Gabinetto Viesseux” di Firenze

«Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogoľ» diceva Dostoevskij e lo conferma «Il compratore di anime morte» (Rizzoli), il romanzo, che voleva riscrivere «Le anime morte» di Gogoľ, di Stefano D’Arrigo, il grande scrittore messinese (1919-1992) che col suo Horcynus Orca, dal complesso iter elaborativo (uscì nel 1975 da Mondadori, dopo più di 15 anni di continua tessitura della materia e della forma), diede alla letteratura italiana un contributo spiazzante. Un testo fino ad ora inedito, «Il compratore di anime morte», l’ennesima sorpresa dello scrittore che col suo ’Ndria Cambrìa/Ulisse aveva dato allo Scill’e Cariddi, allo Stretto, un mito-epopea indimenticabili.
A Roma dove si era trasferito da Messina e dove frequentava poeti e scrittori, artisti e registi, D’Arrigo intendeva «“piazzare” prima o poi il soggetto di cui si stava occupando e ritentare col cinema» (da una lettera a Tito Balestra del 1947). Il “soggetto” era «Il compratore di anime morte», oggi editato da Rizzoli per la cura di Siriana Sgavicchia che nella sua articolata postfazione intitolata «Una trama d’autore» dà conto dell’elaborazione del testo entrando nella difficile vicenda esistenziale e nei progetti creativi di Fortunato “Stefano” D’Arrigo (il nome Stefano gli fu suggerito nella seconda metà degli anni Cinquanta da Renato Guttuso e Giacomo Debenedetti).
Scoperto da Walter Pedullà, grande amico di Stefano, «Il compratore di anime morte» è conservato in forma di dattiloscritto con correzioni autografe presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del “Gabinetto Viesseux” di Firenze, incluso tra i materiali donati dalla moglie dello scrittore, Jutta Bruto D’Arrigo, nel 2007. D’Arrigo pensava – scrive la Sgavicchia – «di riconfigurare la storia di Čičikov, protagonista del capolavoro gogoliano, nel Regno delle Due Sicilie nel contesto delle lotte per la liberazione dalla dominazione borbonica, collocandosi a suo modo all’interno di una tradizione della narrazione sul Risorgimento meridionale e alludendo al legame di contiguità tra il regno dei Borboni e il regime fascista».
Il protagonista, Cirillo Docore, una via di mezzo tra Čičikov e Don Chisciotte, è un “figlio della Madonna”, uno di quei trovatelli adottabili dell’Ospizio della Nunziata a Napoli, rimasto nell’Ospizio dove svolge la funzione di “scrivanuccio” perché nessuna famiglia lo ha mai scelto. Ma per una serie di coincidenze, nel variopinto ventre di Napoli dedito al gioco del Lotto, viene adottato dallo spiantato Principe di Margellina, detto anche Principe Dellotto, per la sua irrimediabile passione del gioco. Intanto tra le carte dell’archivio ha scoperto la presenza di anime morte tra i proprietari terrieri e nobili divorati dalle tasse nella insostenibile situazione del Regno. E così, con l’acquisito titolo di Principe, decide di mettersi in affari e di comprarle quelle anime morte, perciò parte alla volta della Sicilia con la carrozza nobiliare e con il suo valletto Filomeno-Sancio, certo che lì a causa delle condizioni dell’agricoltura, delle carestie e delle epidemie, potrà trovare tante anime morte.
Il racconto, che procede tra toni fantastico-umoristico-grotteschi sullo sfondo di un crudo realismo, segue le avventure rocambolesche di Cirillo, tra nobili viziosi e imbelli, lotte dei “riscaldati” giacobini contro le forze borboniche e Rosalia, una virtuosa poverissima fanciulla da salvare. Intanto sta arrivando Garibaldi, uno sconosciuto per Cirillo, ignaro com’è di conoscenze relative alla situazione politica, ma che, come gli suggerisce Rosalia, è sicuramente un buon motivo per restare in Sicilia.

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