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Messina nelle lettere
di Sciascia e Debenedetti

di Sergio Palumbo

Leonardo Sciascia e Giacomo Debenedetti appaiono due personaggi lontani fra di loro, che sembrano non avere punti in comune sia dal punto di vista umano sia da quello letterario. Scorrendo l'indice analitico del "Meridiano" su Debenedetti, il nome di Sciascia non è menzionato neppure una volta. In realtà, furono più vicini di quanto si pensi: si incontrarono, ebbero stima l'uno dell'altro, condivisero idee e giudizi critici, si scrissero.

Il loro carteggio ora pubblicato da Pietro Milone è per certi versi sorprendente non solo perché attraverso i documenti epistolari si scopre un'amicizia tra due letterati che nelle biografie ufficiali di entrambi non viene evidenziata ma anche perché sullo sfondo spesso figura la Messina degli anni Cinquanta, forse la più viva città siciliana in quel periodo sul piano della cultura militante e accademica - grazie alla presenza di maestri quali Debenedetti appunto, il filosofo Galvano Della Volpe, il giurista Salvatore Pugliatti, il poeta Vann'Antò - che divenne polo di attrazione intellettuale per letterati e artisti isolani e calabresi. Fra questi ci furono il pittore Guttuso e Sciascia.

Inoltre il carteggio mette in risalto il ruolo tutt'altro provinciale del premio "Crotone", la cui giuria era presieduta da Debenedetti e che vide proprio Sciascia tra i protagonisti in due edizioni (tra gli altri vincitori si ricordano Pasolini e Stefano D'Arrigo). Il libro di Milone, Sciascia: memoria e destino. La musica dell'uomo solo tra Debenedetti, Calvino e Pasolini (Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, pp. 292; 22.00 euro) contiene diversi saggi, tutti interessanti, che rivelano la serietà del lavoro esegetico e l'acume interpretativo dell'autore, non nuovo a studi su Sciascia.

Ma il nucleo centrale di questo libro è costituito proprio dal carteggio inedito fra lo scrittore di Racalmuto e Debenedetti con un paio di testi in appendice di assoluto valore e bisogna esser grati al Milone per averli recuperati e riproposti all'attenzione di critici e lettori (la motivazione redatta dal presidente di giuria per il premio "Crotone" a Il giorno della civetta e la nota di Sciascia al volume debenedettiano Verga e il naturalismo) . Il carteggio risale alla prima metà degli anni Cinquanta, non è copioso né confidenziale e, come scrive Milone, non apre la "corda seria" e la "corda pazza" di pirandelliana memoria. Si tratta piuttosto di lettere della "corda civile" che documentano utilmente i rapporti personali e di lavoro.

La corrispondenza epistolare fra i due dopo un lungo periodo di silenzio (ma forse sol perché parte di essa è andata dispersa) riprende nel 1962 e si conclude l'anno seguente. La prima lettera di Sciascia a Debenedetti è dell'8 maggio 1953. All'epoca il trentaduenne Sciascia non era ancora lo scrittore "laureato", aveva pubblicato solo le Favole della dittatura, le poesie La Sicilia, il suo cuore e cominciava ad allargare l'orizzonte delle proprie relazioni letterarie entrando in contatto con Mario dell'Arco e Pier Paolo Pasolini, Rocco Scotellaro e Mario Colombi Guidotti. Faceva l'insegnante e viveva tra Racalmuto, suo paese natale, e Caltanissetta, dove dirigeva la rivista "Galleria". Il piemontese Giacomo Debenedetti, invece, aveva vent'anni più del suo interlocutore siciliano, critico militante di grande prestigio pubblico, dal 1950 occupava la cattedra di letteratura italiana contemporanea (e poi di francese) all'Università di Messina, dove resterà per cinque anni prima di trasferirsi nell'ateneo romano. Sciascia considerava già allora Debenedetti, la cui fama e il cui valore sono cresciuti a dismisura grazie ai suoi illuminanti saggi postumi, il «maggior critico italiano dei nostri anni».

Con uno slancio raro per lui, uomo vigile e misurato, Sciascia nell'ultima lettera a Debenedetti rivela che tiene al suo giudizio «al di sopra di ogni altro». Fu evidentemente questa ammirazione che lo spinse a scrivergli la prima volta, allegando alcuni fascicoli di "Galleria" e una copia del suo Pirandello e il pirandellismo. Il saggio pirandelliano piacque a Debenedetti, che lo trovò «intelligentissimo», e apprezzò la rivista. Da qui nacque, consolidandosi nel tempo, un rapporto amicale e letterario culminante nell'assegnazione del premio "Crotone" nel 1961 a Il giorno della civetta, romanzo che segnò la definitiva consacrazione di Sciascia e il suo più grande successo di pubblico. Sciascia aveva già ricevuto qualche anno prima, nel 1956 per l'esattezza, il premio calabrese per Le parrocchie di Regalpetra. In giuria, al fianco di Debedenetti, c'erano tra gli altri Bassani, Gadda, Moravia, Ungaretti.

Nella sua prima missiva allo scrittore siciliano, Debenedetti gli dava appuntamento a Messina, dove il critico stava per concludere i suoi corsi su Verga. Sciascia rispose che preferiva incontrarlo a Roma dove, di quando in quando, si recava. In proposito, Milone scrive che «Messina non era poi tanto facilmente raggiungibile per lui, che non l'aveva frequentata neanche da studente universitario. Per questa ragione - aggiunge l'autore del libro -, e stando a varie testimonianze tra cui quella della vedova, Sciascia sembrerebbe non essersi mai affacciato alle lezioni messinesi di Debenedetti (...). Sta di fatto che Sciascia, in più occasioni sembrava conoscere i contenuti di quelle lezioni, prima della loro postuma edizione e al di là dei saggi che Debenedetti ne traeva e andava pubblicando; forse, dunque, dalle discussioni con qualcuno che frequentava le lezioni e gliene riferiva. Il tramite accertato con Debenedetti fu Vann'Antò». Intanto, già il fatto stesso che le lezioni del Debenedetti suscitassero tanta curiosità, tanta attenzione, e se ne parlasse anche fuori dalle aule studentesche, dimostra quanto carisma avesse quel docente, ritenuto un vero maestro, anche se rimase per tutta la vita un "incaricato" perché il miope mondo accademico italiano gli stroncò la carriera universitaria.

Quelle lezioni erano un evento a cui assistevano non solo colleghi come Vann'Antò, Nino Pino, e talvolta persino Pugliatti e Della Volpe, ma anche poeti come Lucio Piccolo, che venivano da Capo d'Orlando, o scrittori come Mario La Cava, proveniente dalla Calabria. Vincenzo Palumbo fu il primo assistente volontario di Giacomino Debenedetti. Tra gli studenti che seguivano il maestro in lezioni improvvisate pure al caffè o in libreria c'erano Saverio Strati e Walter Pedullà. Anche se Sciascia non era fra quegli aficionados a Messina, spiritualmente era come se fosse presente alle lezioni debenedettiane anche perché aveva in Vann'Antò, finissimo poeta e folclorista, uno straordinario raccontatore. In realtà Sciascia capitava spesso a Messina, perché la città era una tappa obbligata da e per la Sicilia, occorreva attraverso con il traghetto lo Stretto (allora si viaggiava quasi esclusivamente con il treno). Sciascia aveva già frequentato, sia pure saltuariamente, la città peloritana quando si era iscritto nell'ateneo locale, alla facoltà di Magistero, anche se poi non portò a termine gli studi (la laurea honoris causa alla memoria gli è stata conferita nel 2000).

I carteggi di Sciascia con lo scrittore Mario La Cava e il poeta Nino Crimi confermano che lo scrittore negli anni Cinquanta passava da Messina, fermandosi magari solo per qualche ora. È «una città che mi piace molto», scrisse una volta a Crimi. Alla libreria dell'Ospe dava appuntamento agli amici, primo fra tutti Vann'Antò. Ma c'erano pure il citato Crimi, Eugenio Vitarelli, il critico d'arte Marcello Passeri, che lo interessava come poeta. Nel 1953 venne apposta per vedere la straordinaria mostra su Antonello da Messina, un pittore che lui amava molto, e incontrò Pugliatti e Giorgio La Pira. Il suo legame all'Ospe è fra l'altro testimoniato dalla lettera aperta - ne fu tra i firmatari assieme a tanti altri prestigiosi letterati anche non siciliani - per scongiurare la chiusura della libreria messinese nel 1988.Alcuni anni prima Sciascia provocatoriamente arrivò a dire che la moderna Messina «forse non esiste, è soltanto il punto della Sicilia da cui partono i traghetti e a cui attraccano». Così si legge, tra l'altro, nella sua prefazione alle poesie di Vanni Ronsisvalle, Attuale estensione di Messina nel 1974.

Secondo lo scrittore, infatti, «le certificazioni dell'esistenza di Messina, di una vera e alacre città con questo nome, bisogna cercarle indietro nel tempo. Molto più indietro del 1908, anno del terremoto che la distrusse. Forse bisognerà stabilire al 1840 il termine ad quem dell'esistenza di Messina: poiché è di quell'anno la guida alla città e ai suoi monumenti di Giuseppe La Farina, l'ultima immagine che conosciamo dell'operosa città che all'inoperosa Palermo aveva per secoli conteso il primato». Non si tratta di un ripensamento in negativo su Messina da parte di Sciascia, ma di una riflessione amara se si guarda alla storia gloriosa e sventurata a un tempo della città.

Ciò che affascinava Sciascia erano soprattutto l'ambiente e il paesaggio peloritano, era quel «mare di Messina, pieno di miraggi e di miti» come ebbe a scrivere in una nota ad Acqualadrone, i racconti di Vitarelli. Non a caso lo scrittore ha dedicato pagine proprio al mare di Messina, all'esemplare leggenda di Colapesce e al maestoso porto falcato dove si radunò la più grande flotta mai vista nel Mediterraneo per l'epica impresa di Lepanto. Nell'antologia Narratori di Sicilia (la riedizione del 1991), firmata da Sciascia a quattro mani con Francesco Guglielmino, non può mancare inoltre l'apparizione delle fere, brano tratto da Horcynus Orca, il romanzo-poema di Stefano D'Arrigo con uno scenario marino suggestivo che esalta in chiave moderna i miti dello Stretto di Messina.

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