Lunedì 23 Dicembre 2024

Confessione d’una
grecista e latinista
pentita

di Anna Mallamo

 

Ho scelto il latino quando, alle medie, era facoltativo; ho fatto il liceo classico; mi sono laureata in Lettere antiche. Considero Catullo un cugino burlone e sciupafemmine, Virgilio un nonno sapiente, Lucrezio uno zio svitato ma geniale. Per non parlare di quell’attaccabrighe di Archiloco, dell’onnipresente rapper Omero e del grillino Aristofane: gente di famiglia, in pratica. Soprattutto quaggiù al Sud dove siamo greci e latini fin dalla forma del naso, dai nomi e dalla postura mentale. Eppure, oggi, mentre ferve il dibattito sull’utilità del latino, non in sé (che nessuna cosa è utile in sé, piuttosto molte cose sono indispensabili, in sé, e la cultura tutta rientra in questa categoria) ma nell’ambito istituzionale degli studi, mi trovo con molti più dubbi che certezze in merito, soprattutto ascoltando le argomentazioni di chi sostiene che il latino sia presenza ineludibile nei programmi scolastici. Alla luce della mia esperienza, ritengo che non sia del tutto vero. E non per questione di “utilità”, che è problema mal posto: ciascuno di noi ha studiato milioni di cose di dubbia o nessuna “utilità”. Per dire, non mi è nemmeno mai servito sapere cosa fosse un polinomio, e non ho mai avuto occasione d'incontrare, nella mia vita quotidiana e professionale, un'ossidoriduzione o un ciclo di Krebs. Ma di certo chimica, algebra e biologia (e lo sforzo fatto per impadronirmene) m’hanno formata almeno quanto gli aoristi passivi, le interrogative indirette e l’elenco delle tragedie perdute di Euripide. E mi fermo a questa (orribile, ammettiamolo) “superficie” perché, tristemente, è quella che più spesso capita d'incontrare: studi sviliti a gare di verbi irregolari, inutili agonie su capolavori sfigurati (il massimo, da sempre, è lo studio coatto dell'Eneide in italiano, magari in qualche traduzione ottocentesca: il modo più sicuro per allontanare irrimediabilmente da Virgilio), stracca ripetizione di classici privati della loro scintilla più vera: quella che li rende attuali, anzi profetici. L’umanesimo –che dovrebbe essere traccia guida degli studi classici scolastici –appare morto e sepolto, e con esso l’idea feconda dell’uomo misura di tutte le cose (l’uomo, non l’esame - tro), l’idea “umana”che comprende e illumina ogni sapere, e non solo le letterature: le scienze, il diritto (riservato, anche quello nella sua forma più arida, agli istituti tecnici, e invece nulla per i futuri avvocati che scelgano il classico, tenuti all’oscuro di una delle più perfette realizzazioni del genio latino, ovvero il pensiero giuridico), la psicologia, le scienze davvero “umane” (che, ovviamente, sono oggetto di tutt’altro indirizzo di studi). Sono una latinista e grecista pentita, che coltiva nell'intimo i suoi esametri e li considera bellissimi (così come tante altre cose, però: dagli haiku giapponesi ai film di Tarantino). Ma dalla scuola vorrei altro. Altra umanità, e altra tecnica, per gli studi umanistici.  

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