Venerdì 22 Novembre 2024

Ma le Vespe oggi
non pungono più...

di Anna Mallamo 

Nei nostri tempi dominati dal contrasto tra giovani “rottamatori” e vecchi indomabili dai capelli dipinti e il cerone sulle rughe non si può restare indifferenti al contrasto che va in scena, per il terzo spettacolo del ciclo siracusano dedicato tradizionalmente alla commedia, ne “Le vespe” di Aristofane (finora pochissimo rappresentate): quello – già lampante nei nomi, che al solito in Aristofane sono “parlanti” – tra il vecchio Vivacleone (Antonello Fassari, uno dei protagonisti dei “Cesaroni”) e il figlio Abbassocleone (Martino D’Amico).

Tanto più se il motivo del contendere è nientepopodimeno che il sistema giudiziario. Quello che nel nostro Paese si deve riformare un giorno sì e l’altro pure, quello continuamente e alternativamente accusato d’essere in combutta col potere politico, o in antagonismo con esso. Ma non attendetevi, dalla regia di Mauro Avogadro (che ha lavorato in stretta sinergia col traduttore Alessandro Grilli), appigli con la realtà di oggi che siano più che lievi boutade, riferimenti scherzosi e fuggevoli a «inciuci», «larghe intese» e «Cavalieri»: il nodo comico sta altrove, e molto è delegato allo straordinario potenziale della strepitosa Banda Osiris, «ronzante, pungente, frizzante e spiazzante», in una vertigine di gag musicali e sonore, dissonanze da farsa e sinuose arie liriche (interpretate dal singolare “sopranista” siracusano Adonà Mamo), Walt Disney e Cabaret.

Tra i dialoghi dei servi, disperati per la “guerra” casalinga (i bravissimi Sosia-Sergio Mancinelli e Santia-Enzo Curcurù), lo sciamare del coro (le “vespe” e i calabroni che rappresentano i vecchi giudici popolari, colleghi e sodali di Vivacleone, e per lo più s’annidano nelle celle del colossale alveare immaginato da Arnaldo Pomodoro), le incursioni di convitati perdigiorno a bordo d’una sicilianissima “lapa”, il finale “contest” di ballo in mutandoni, la cosa più vivida restano comunque le musiche e l’uso degli strumenti «come oggetti di scena»: tromboni-pungiglioni-ali di calabrone, percussioni rap e “ballerine” d’ottone.

Infine, le “vespe” oggi non pungono: fanno sorridere, lasciando qualche perplessità di troppo.

Nei nostri tempi dominati dal contrasto tra giovani “rottamatori” e vecchi indomabili dai capelli dipinti e il cerone sulle rughe non si può restare indifferenti al contrasto che va in scena, per il terzo spettacolo del ciclo siracusano dedicato tradizionalmente alla commedia, ne “Le vespe” di Aristofane (finora pochissimo rappresentate): quello – già lampante nei nomi, che al solito in Aristofane sono “parlanti” – tra il vecchio Vivacleone (Antonello Fassari, uno dei protagonisti dei “Cesaroni”) e il figlio Abbassocleone (Martino D’Amico).

Tanto più se il motivo del contendere è nientepopodimeno che il sistema giudiziario. Quello che nel nostro Paese si deve riformare un giorno sì e l’altro pure, quello continuamente e alternativamente accusato d’essere in combutta col potere politico, o in antagonismo con esso. Ma non attendetevi, dalla regia di Mauro Avogadro (che ha lavorato in stretta sinergia col traduttore Alessandro Grilli), appigli con la realtà di oggi che siano più che lievi boutade, riferimenti scherzosi e fuggevoli a «inciuci», «larghe intese» e «Cavalieri»: il nodo comico sta altrove, e molto è delegato allo straordinario potenziale della strepitosa Banda Osiris, «ronzante, pungente, frizzante e spiazzante», in una vertigine di gag musicali e sonore, dissonanze da farsa e sinuose arie liriche (interpretate dal singolare “sopranista” siracusano Adonà Mamo), Walt Disney e Cabaret.

Tra i dialoghi dei servi, disperati per la “guerra” casalinga (i bravissimi Sosia-Sergio Mancinelli e Santia-Enzo Curcurù), lo sciamare del coro (le “vespe” e i calabroni che rappresentano i vecchi giudici popolari, colleghi e sodali di Vivacleone, e per lo più s’annidano nelle celle del colossale alveare immaginato da Arnaldo Pomodoro), le incursioni di convitati perdigiorno a bordo d’una sicilianissima “lapa”, il finale “contest” di ballo in mutandoni, la cosa più vivida restano comunque le musiche e l’uso degli strumenti «come oggetti di scena»: tromboni-pungiglioni-ali di calabrone, percussioni rap e “ballerine” d’ottone.

Infine, le “vespe” oggi non pungono: fanno sorridere, lasciando qualche perplessità di troppo.

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