di Anna Mallamo
Che “buttanissima” alla Sicilia glielo possono dire solo loro, i siciliani, che hanno diritto d’epiteto e pure inclinazione (qui, tra Magna Grecia e Sicilia, forgiavamo epiteti quando altrove si dipingevano di blu. Ora si dipingono di verde). E Buttafuoco – cognome che di suo potrebbe ben essere un epiteto – ne sparge con pienezza nel suo libro che più che un pamphlet è un “cunto” e un poemetto satirico, con tutto un ritmo interno scandito da taluni epiteti (appunto) e formule che fanno pensare ai poemi greci piuttosto che al libello politico: «la fogna del potere»; «l’impostura»; «Mastro Don Gesualdo»; «il Vantone»; «il professionista più professionista di tutti i professionisti dell’antimafia»; «cose di Sicilia»; «l’Ariddu». Formule ed epiteti nel flusso del discorso, che tornano e fanno sobbalzare: è prosa che vuol contundere e ci riesce, comunque la si pensi, sull’Autonomia, sul Gattopardo, sull’Ars o sul destino.
“Annacamenti”, tic, piroette, teatralizzazioni, mitologie: Buttafuoco, dall’occhio acuto e la parola puntuta (che poi sarebbe alata, come la freccia: epea pteroenta, diceva zio Omero), non ne risparmia uno, passando da un protagonista all’altro, da una «casta con le sarde» a un’ «Opera dei Puppi». E mica son giochi di parole: le parole sono costrette a giocare quando è la realtà che gioca con noi (cosa che i sofisti avevano ben chiara, proprio qui, qualche migliaio d’anni fa: molto prima che il paradosso diventasse la nostra vita politica quotidiana e che fosse accettabile chi governa dicendo, e facendo, continuamente, una cosa e il suo opposto). Sullo sfondo, la Sicilia bedda, oltraggiata e immota (o in mota, anche), dove non è vero che «tutto cambia affinché nulla cambi»: è, questo, un altro dei giochi di specchi di quell’impostura che scambiamo per realtà. Noi meridionali, artefici della nostra sventura eppure innamorati di essa.
Come potremmo definirla, la sorte, pervicacemente voluta e costruita, che ci travolge? Ah, “buttanissima”.