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Esistenze senza avvenire
ma che “riconoscono” le stelle

di Vincenzo Bonaventura

Non deve illudere il fatto che i protagonisti siano un travestito e una prostituta e che l’ambientazione sia un marciapiede, in piazza Cavallotti a Messina. Sotto quelle mentite spoglie, così marginali, da esclusi, rispetto alla società che si autoproclama normale, si intravvede un intero mondo, quello di tutti. A cominciare da una città, la nostra, dove si fa a gara ad apparire, nelle azioni e nei pensieri, diversi da ciò che si è davvero. E questo, in fondo, avviene dovunque. Ciò che esprime “Lei e lei”, lo spettacolo prodotto dal Teatro di Messina, scritto, diretto e interpretato da Giampiero Cicciò, in scena con Federica De Cola, è il senso di consorteria che qui sembra legare ogni forma di potere in maniera più “storica” che altrove. Anche più avveduta, sembrerebbe, visto che finora tutto rimane sottotraccia, immaginabile ma non dimostrabile.

Così Cicciò non nasconde la desolazione di esistenze condotte per strada, cui è negata la speranza di un avvenire, ma nello stesso tempo dimostra come da questo dolore, mai abbastanza anestetizzato, vengano fuori – come un fiore di cactus – sentimenti quali la solidarietà, la sincerità, la voglia di guardare le stelle e la consolazione di immaginarsi un pubblico che colga le sfumature migliori di anime che non hanno perso la tensione verso il bello.

Accomunati dallo stesso protettore (agganciato con la criminalità e con la politica), il travestito di mezza età e la più giovane prostituta proveniente da Roma (dove è stata circuita, ingannata e fatta abortire da Carmelo, il lenone) cominciano il loro sodalizio nella notte di Natale. Da lì all’Epifania, prima si guardano sospettosi, poi si scontrano e infine si aiutano. Soprattutto riescono, alternandosi nei cambiamenti d’umore, a mantenere la capacità di sognare e di sorridere, a raccontare di sé e dei loro vissuti.

“Lei e lei” è come un piccolo trattato sociopsicologico, senza averne la severa serietà, percorrendo invece la strada dell’ironia. La regia fa leggere con chiarezza il dramma ma dà evidenza a una serie di battute cui il pubblico risponde con risate adeguate (forse un po’ liberatorie). Il travestito parla in dialetto e rimpiange una carriera da cantante, mischia slogan pubblicitari e religiosità popolare; mantiene una sua ingenuità di fondo che convive con la percezione chiara di tutti i suoi problemi. Fra parrucche dai colori imprevedibili e vestiti sgargianti, completi di stivaloni con tacco 12, racconta di sé: «È come se non sto vivendo veramente». La prostituta non riesce a staccarsi dall’immagine del bambino perduto e dalla mancata carriera di attrice: il suo ipotetico provino a base di un bellissimo tango è intriso di poesia triste.

Giampiero Cicciò interpreta con acuta sensibilità il variare degli stati d’animo del travestito, mentre Federica De Cola conferma le sue qualità in un crescendo di adesione a un personaggio non facile.

Francesca Cannavò firma scene e costumi, essenziali le prime e vistosissimi i secondi. Raffinate le scelte musicali di Fausto Cicciò, efficace il disegno luci di Renzo Di Chio.

Molti applausi, al Vittorio Emanuele. Pomeridiana, oggi alle 17.30; poi martedì e mercoledì al Mandanici di Barcellona.

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