di Anna Mallamo
Non si può vivere in Sicilia (chiamandosi per giunta Anna, ma questa è una circostanza molto personale) e non provare curiosità estrema per l’ultimo libro di Niccolò Ammaniti, “Anna”. Che, riassunto superficialmente, è appunto la storia della tenace, caparbia Anna, decisa a sopravvivere, assieme al fratellino Astor (sì, da Astor Piazzolla, il genio del bandoneón che ha rimescolato il tango argentino), nel mondo che una misteriosa epidemia, “la Rossa”, ha consegnato ai bambini e ragazzini, uccidendo qualsiasi essere umano con più di quattordici anni.
Non è esattamente un’idea nuova: di mondi lasciati ai ragazzi ce n’è un’infinità, nella letteratura di genere ma non soltanto (i bambini del grano di Stephen King o i sopravvissuti del “Signore delle mosche”, i ragazzi di Logan o di cento altre distopie). Ma affascinanti e diverse, semmai, sono soprattutto due cose: lo scenario siciliano e la figura di Anna, tredicenne palermitana.
C’è qualcosa di già post-apocalittico nel Sud e in Sicilia segnatamente: la sua bellezza abbagliante coniugata con l’abbandono, il suo degrado infiltrante, quella sensazione – assieme – d’avveniristico decaduto e d’arcaico in fiore, la percezione inquietante che la natura potrebbe in ogni istante riprendersi tutto, ristabilire la supremazia del mare ferroso, del fuoco, della terra, d’una vegetazione impenetrabile, originaria, non domesticabile (Messina, in particolare, è descritta invasa da rampicanti e cespugli di more, abitata da greggi e stormi).
“La Rossa”, la sparizione degli adulti e lo sfacelo del mondo come lo conosciamo paradossalmente in Sicilia aggiungono poco ai colori e alla violenza d’un’indole del territorio abbacinante ed estrema, alla forma chiusa dell’Isola oltre la quale può esserci qualsiasi cosa, qualsiasi speranza. Ecco perché Anna, a un certo punto, vuol passare lo Stretto, e vedere se di là c’è ancora il mondo di prima: come fecero i sopravvissuti al terremoto del 1908, quell’apocalisse che qui abbiamo vissuto davvero.
Amiamo Anna e la vita istintiva che la anima, quell’imperativo senza mediazioni che la porta a sopravvivere con ogni espediente, a fare ancora un passo, a tentare ancora un cammino, a proteggere contro ogni cosa il bimbo Astor in cui la vita s’esprime con forza ancor più irriflessiva e assoluta, a salvare il cane Coccolone, pastore maremmano ex assassino, anche lui coriaceo e resistente alla morte, anche lui spaventosamente vivo. Il suo slancio potente – che forse è amore (per Astor, per Coccolone, per il compagno di viaggio Pietro, per il ricordo della madre, che le ha lasciato un quaderno con tutte le istruzioni per sopravvivere) – sostiene tutto il libro, in cui alcune delle cose migliori sono certe scene collettive in cui mandrie di bambini blu, di ragazzini con collane d’ossa, di sopravvissuti trasformati da scolari in cacciatori-raccoglitori tra le vestigia del nostro mondo (in una girandola di nomi commerciali di merendine, liquori, oggetti, scatolame: i feticci dei nostri tempi), in sacerdoti di culti stravaganti ed estremi (quello della Picciridduna, essere senza sesso né tempo che, nel mito collettivo e insensato sorto non si sa come tra i ragazzi, dovrebbe proteggere dal contagio) danno vita a veri incubi d’apocalisse, anche perché descritti con una lingua che non si sottrae a nulla, intinta nel perturbante e che prende modi cannibali perché nessuno la sospetti d’avere un cuore.
Probabilmente non è un libro perfetto, ma è un libro che dice, e che lascia una voce persistente, dentro. Quella di Anna, la vita.
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La storia
La Sicilia, come il resto del mondo, è spopolata di adulti: all’epidemia di “Rossa” non sopravvive nessuno che abbia più di 14 anni. Anna Salemi, tredicenne palermitana, combatte per sopravvivere e proteggere se stessa, il fratellino Astor, e poi anche il cane Coccolone, coi quali intraprende un viaggio verso il Continente. La frase: «La vita non ci appartiene, ci attraversa».