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Noi, vittime
della terribile “sindrome
dello Sguardo Basso”

di Anna Mallamo

Certamente «ognuno potrebbe», se solo volesse, rendere migliore la parte di tempo e il luogo in cui gli accade di vivere. Ma tranquilli, non è così, qui e adesso. Qui è un imprecisato punto di Capannonia, quella sterminata periferia in cui ogni costruzione – centro commerciale, capannone, stazione di rifornimento – sembra casuale e partecipa pure, adesso, del lugubre color abbandono che la crisi conferisce a tutti i panorami post-industriali e post-consumistici. Ma tanto, la gente che vive a Capannonia non ci fa caso, dal momento che tutti, o quasi, vanno in giro in preda a “sindrome dello Sguardo Basso”, perché presi dal loro “egofono” e persi nella loro perenne condizione di “digitambuli”, quindi in remota connessione con chissà chi e chissà dove (presumibilmente l’abitante di un’altra Capannonia altrettanto triste, brutta e “nonluoghica”). Condizione da cui ci si risveglia solo occasionalmente per dar vita a un “selfie” sguaiato che va a costituire – con altri milioni scattati in contemporanea – la strana vita sospesa e falsamente collettiva che viviamo.

Si sarebbe persino tentati di dare ragione a Michele Serra, che dopo il successo de “Gli sdraiati” si riaffaccia col romanzo “Ognuno potrebbe” (Feltrinelli), non meno acuto nel tratteggiare alcune nostre contemporanee miserie, vagheggiando un tempo altro (non il misero «tempo refluo nel quale siamo finiti») in cui il lavoro manuale, la giusta distanza (prossemica ma anche etica e persino generazionale) e la giusta presenza (e non l’assenza indotta e autistica in cui si vive, sprofondati ciascuno nel proprio ego-fono, ossessionati dalla parola «io») stabilivano una rotta e una norma dello stare assieme che, sorprendentemente, funzionava pure quando eravamo da soli. Si sarebbe tentati, ma poi per fortuna non succede.

Perché, malgrado l’obiettiva arguzia dei neologismi e delle trovate (non ultimo l’io narrante, Giulio Maria, antropologo quasi quarantenne con una labile, e ridicola, occupazione universitaria, ovviamente a progetto: analizzare le scene di esultanza dei calciatori dopo il gol), la perizia dell’insieme e il garbo ironico della scrittura, qua e là s’avverte assai – ben più che ne “Gli sdraiati” – un insopportabile retrogusto di moralismo un po’ snob, un che di radical-chic (parola dal sempiterno gusto vintage), uno sgradevole sentore di webfobia (che il nostro autore talora ha manifestato altrove con gagliarda decisione) e, infine, malgrado gli accorgimenti abilmente usati – non ultima la simpatia suscitata dal modo in cui l’io narrante censura le sue stesse debolezze e tentazioni moralistico-giudicanti – la netta sensazione che non tutto quel che pare lieve, pensoso, intelligente e centrato lo sia davvero. Per dirla con le parole di Giulio Maria, «mi piace credere di essere silenzioso e riflessivo; ma sono solo sfuggente e inadeguato». Ecco.

Certo chi ama il Michele Serra dell’Amaca (io, per esempio, quindi parlo a nome della categoria)(per la cronaca, piacerà all’Autore sapere che le sue amache viaggiano soprattutto nel “nonluogo” del web e fioriscono copiose proprio sui nostri “egofoni”) sarà un po’ dispiaciuto, ma è pur vero che si può sempre essere lievi e geniali in venti righe e un po’ cinghiali (animale-totem del libro, a partire dalla copertina) in duecento pagine. Perché, per fortuna, la realtà è sempre meno piatta e monotona di una qualsiasi Capannonia. Persino vista fuori dallo schermo di un egofono. Ognuno potrebbe rendersene conto...

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La storia

Giulio Maria, vecchio ragazzo di 36 anni, antropologo , fidanzato della pragmatica barista Agnese, vive malconesso al proprio tempo, nel quale si sente fuori posto. Il tempo non-tempo del luogo non-luogo di Capannonia. Che ogni tanto è attraversata dai cinghiali...

LA FRASE: «Ma “io” non è una parolaccia!». Nessuno di noi poteva immaginare che lo sarebbe diventata».

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