Frontiera: «linea di confine che separa due Stati, soprattutto in quanto ufficialmente delimitata e riconosciuta e dotata, in più casi, di opportuni sistemi difensivi». Dice così il dizionario. Leggendo il libro di Alessandro Leogrande ci accorgiamo che le frontiere sono infinite: forse c’è una frontiera per ogni corpo, per ogni storia, per ogni vita.
Tra Oriente e Occidente, tra Africa ed Europa, tra Asia ed Europa, tra resto del mondo ed Unione Europea (che voleva essere essenzialmente un modo “diverso” di concepire le frontiere...). Le frontiere passano per terra, no, per mare, no, per linee astratte tracciate coi sestanti e i codici, difese da navi armate e satelliti, indifese, indifendibili quando è la Storia che, coi suoi fagotti e le sue bisacce, si mette in viaggio per sovvertire le frontiere esistenti e crearne altre.
Il libro di Leogrande raccoglie mille storie: di chi ce l’ha fatta, di chi è caduto, di chi è ancora disperso in terre di nessuno, in mari aridi, in valichi irraggiungibili. Vengono da mille luoghi diversi, hanno mille motivi diversi per cercare quella sottile linea rossa – la frontiera che si è fatta di sangue: alcuni pagheranno con la vita; altri con anni di dolore, con la perdita di figli, fratelli, amici; tutti con la perdita d’innocenza, d’integrità. Li accomuna quel confine a cui arrivano, con cui si confrontano tutti – e noi, che stiamo «di qua», anche per noi è un confronto, al quale possiamo forse fuggire, ma non per sempre.
E nemmeno aveva senso fare “solo” un catalogo di storie, la declinazione d’identiche vicende, lottando per tenersi fuori dall’ «enorme processo di spettacolarizzazione» da cui il fenomeno delle migrazioni viene periodicamente fagocitato ed espulso, fagocitato ed espulso. Quello che Leogrande fa, infatti – incrociando i racconti con i numeri, le impressioni coi dati – è ricercare «l’unicità di ogni ferita». Lo sguardo che ci impedisce d’appiattire ogni figura sull’identico sfondo.
Davanti a BabeleCosì leggiamo le storie di Syoum e di Ali, di Hamid e di Yuan, del baby-scafista Abdel, dell’intrepida Alganesh, improbabile alleata dell’imam salafita Mohammed. Sono tante e diverse le lingue: il tigrino, il persiano, l’arabo. La frontiera è anche Babele, l’incarnazione dell’impossibilità di comprendersi, la fatica enorme prima di spiegarsi, poi di trovare le parole per raccontare. E la frontiera è anche nel tempo: la vita di prima, la vita di ora. E non è questione di sopravvivenza o benessere: è cosa d’identità, memoria, consapevolezza.
E la questione politica: le frontiere sono da sempre il giochino preferito della politica, A volte consentono di non guardare tutto il resto, quello che viene prima e dopo. Anche quello che veniva molto prima, come il nostro infelice passato coloniale.
Ci resta, infine, la sensazione della frontiera più ostile, invalicabile: quella tra gli uomini. I muri persistenti nella nostra mente, nella nostra anima.