«La frontiera è un termometro del mondo. Un insieme di punti immaginari, la moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento». Nel suo nuovo libro, “La frontiera” (Feltrinelli editore, pp. 320, euro 17), Alessandro Leogrande – tarantino, classe ’77, giornalista, scrittore e curatore di diverse antologie – indaga con umanità il dramma dei migranti compiendo un piccolo miracolo, passando dal profilo generale della questione a quello personale, narrando l’epopea «senza alternativa» di diversi uomini, spesso giovanissimi, che hanno affrontato una morte probabile in mare per scongiurare una condanna certa, fuggendo dalla miseria, dalla guerra, dalla persecuzione in patria.
Il racconto dei profughi non può prescindere dal nostro passato storico e non può essere governato senza uno sguardo al futuro. Il rischio è che si possano ripetere fatti violenti come quelli verificatisi nella notte di Capodanno a Colonia: «L’inviolabilità del corpo delle donne non può essere messa in discussione, ma la politica delle perenne emergenza impedisce ogni tipo di possibile integrazione». Leogrande sarà a Messina domani, alle ore 18, alla Feltrinelli Point (dialogheranno con l’autore Nadia Terranova e Caterina Pastura).
“La frontiera è un termometro del mondo”. Cosa intende?
«La frontiera è un luogo difficile da identificare. Nei nostri discorsi rappresenta qualcosa che separa due mondi, attraversata da centinaia di migliaia di persone che mettono in discussione i bordi, l’essenza stessa dell’Unione Europea, la sua identità».
Perché crede sia necessario evitare di considerare automaticamente i migranti come delle vittime?
«La semplificazione mediatica va combattuta, sia quando li si identifica come possibili criminali, sia quando li inquadriamo a priori come vittime. Continuiamo a considerare l’esodo come un barcone affollato che si affaccia nelle nebbie del porto, popolato di persone con il volto indistinto, invece dobbiamo recuperare i volti, le singole storie, facendo emergere la complessità individuali e le motivazioni dell’agire».
Come si potrebbe agire?
«Dobbiamo comprendere il contesto storico-politico che determina tante fughe di massa, come nel caso dell’Eritrea».
Proprio la questione eritrea è centrale nel suo libro…
«Mi sono reso conto che a bordo della barca naufragata davanti all’isola dei Conigli a Lampedusa il 3 ottobre 2013 ben 360 morti su 368 complessivi erano eritrei. Si è parlato molto di quei fatti ma nessuno ha sottolineato il fatto che fossero eritrei. Perché? Gli eritrei fuggono da una delle più feroci dittatura al mondo e non si sottolinea la loro etnia per non voler evidenziare il nostro passato coloniale in quel paese. La nostra miopia sugli sbarchi odierni si somma a quella sul nostro passato storico».
La decolonizzazione è l’albero del male da cui derivano integralismo e fughe di massa?
«Non dico questo. Alcune aree pesantemente investite dalla questione migratoria, come Somalia, Etiopia, Eritrea e la Libia come zona di passaggio hanno tutte in comune in fatto di essere ex colonie italiane, eppure nessuno ne parla. Ma non credo in una visione ultra-terzomondista. Eritrea e Somalia dimostrano come sia fallito il sogno della de-colonizzazione. Il risultato è una sorta di desertificazione della forma statale conosciuta da cui emergono l’anarchia pura o i totalitarismi. Tutte queste tensioni spingono sul Mediterraneo».
Ha la sensazione che ci troviamo in continua emergenza?
«Certamente. Viviamo in una sorta di eterno presente, come se gli avvenimenti accadessero senza alcuna conseguenza logica. L’emergenza dei profughi non può essere affrontata senza politiche di lungo corso. I fatti di Colonia sottolineano tristemente come la politica dell’emergenza impedisca di governare razionalmente l’integrazione dei migranti nella società e il confronto con i valori occidentali fondamentali, come l’inviolabilità del corpo delle donne, che non può assolutamente essere messa in discussione. La sensazione è che i governanti sperino che tutto possa sistemarsi da solo ma i nodi stanno venendo al pettine».
Cosa potrebbe accadere se Svezia e Danimarca decidessero di far saltare gli accordi di Schengen, cosa potrebbe accadere?
«L’esplosione dei numeri nel 2015 e credo anche nel 2016, deriva dalla crisi siriana che presto o tardi dovrà essere affrontata. Non credo che possano saltare gli accordi europei da un giorno all’altro, ma il progetto europeo e la libera circolazione è in seria discussione. È in atto una regressione del sogno europeo verso i nazionalismi ma nonostante tutto, credo che solo l’Europa possa gestire questo delicatissimo frangente storico».