Solo una cosa avrebbe potuto nuocere al romanzo d’esordio di Francesca Fornario, giornalista e formidabile autrice satirica, “La banda della culla” (Einaudi): se nel frattempo l’Italia fosse diventata un Paese civile. Con leggi per il lavoro, la tutela (reale) della maternità, le unioni civili. Persino meno che leggi: anche solo regolamenti e decreti attuativi di alcune cose già esistenti ma al momento lettera morta. Lo dice lei stessa, ovviamente, perché la sua è la generazione a cui davvero serve un enorme senso dell’umorismo per sopravvivere, qui e oggi.
Nel Paese in cui tutti ormai sono troppo qualificati per i lavori che saprebbero fare, e quindi devono arrabattarsi a farne di qualunque altro genere: friggere supplì tossici nell’olio di palma, subire le crisi di nervi dei malcapitati ai quali come operatore di call-center devi telefonare più spesso che se fossero tuoi fidanzati, consegnare pizze a domicilio su un mezzo truccato e senza assicurazione (ma tanto anche i pizzaioli lavorano in nero, e sono appena più su nella catena alimentare del precariato), fare il falso inviato per realizzare servizi della tv che non paga i servizi e quindi ti invia al massimo al Palazzo di fronte, a chiedere un’opinione al politico di turno. Nel mondo in cui le cose normali appaiono irraggiungibili e mitologiche: una casa appena abitabile, uno stipendio con qualche parvenza di regolarità, il progetto d’un figlio.
E le vicende delle tre coppie protagoniste, che coprono, dai 20 ai 40, la sterminata, indistinta, informe prateria dei senza lavoro fisso disposti a lavorare a progetto («l’unico contratto che non ti permette di fare progetti») e costretti infatti a vivere senza progetti esistenziali di alcun genere, consentono alla Fornario – che sabato presenterà il libro a Messina, alla Gilda dei narratori, alle 18,30 – d’attraversare tutto il catalogo di paradossi, assurdità, ossimori logici e giuridici dei nostri tempi: dall’ «obbligo di rimpatrio volontario» che colpisce l’argentino Miguel (un chirurgo che serve ai tavoli d’un ristorante messicano, con tanto di sombrero) alla gravidanza di fatto equiparata a «patologia invalidante» che causa la decadenza immediata del contratto di lavoro: «un contratto di lavoro che sparisce nel preciso momento in cui tu avresti bisogno d’essere tutelata da un contratto di lavoro».
Giulia e Miguel, Claudia e Francesco, Veronica e Camilla – i cui destini s’incrociano proprio nello studio d’una ginecologa, nel momento in cui la maternità diventa il loro problema comune – mettono assieme una «banda della culla» che ristabilisca la giustizia e li salvi dalla giungla di leggi, leggine, norme, abusi protetti da norme, norme che sono veri abusi. Si dovranno muovere contro tutto e contro tutti, ma hanno le armi più incredibili della storia dell’umanità, dalla selce scheggiata in qui: l’amore, l’amicizia, l’ironia, la solidarietà, la capacità di vedere ancora la bellezza e di perseguirla con ostinazione.
Perché nel romanzo la satira – col suo bisturi lucido, la sua spietata capacità di cogliere il lato paradossale delle cose e mostrarcelo senza veli – s’intreccia con la tenerezza, la farsa sfida le lacrime e se le porta a bere qualcosa al bar, le gag più sfrenate fanno posto (nemmeno fossero studenti conviventi in un microappartamento di Roma...) a momenti mozzafiato in cui persino il dolore si può raccontare in modo lieve, intenso, profondo.
Fino al capitolo finale, che sovverte, già dal titolo, più d’un secolo di convincimenti sulla natura della felicità e sulle risorse della famiglia: «Ogni famiglia felice è felice a modo suo» (e ci permettiamo d’indicare, proprio in questi giorni, al nostro Parlamento l’unica forma corretta di famiglia a cui ispirarsi per legiferare: la famiglia felice).
Ciascuna famiglia costruirà il “suo” modo, con pazienza e con strumenti che non t’aspetti, in una scoppiettante opera comica, dopo aver riso a ogni pagina: l’amore per gli altri, la fiducia nell’empatia, la certezza della solidarietà come uniche, vere forme di resistenza umana, di bellezza, forse di possibilità per tutti noi.
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