Ecco il testo integrale della Laudatio pronunciata dal prof. Vincenzo Fera.
Magnifico Rettore, Autorità civili, cari colleghi, dottorandi, studenti, signore e signori presenti,
le ragioni per cui il Collegio dei docenti che ho l’onore di coordinare ha deciso di conferire il Dottorato honoris causa in ‘Scienze storiche, archeologiche e filologiche’ al maestro Salvatore Giuseppe Tornatore si possono riassumere nell’aver riconosciuto in tutta la sua produzione i principi metodologici alla base delle nostre dinamiche scientifiche: le sue creazioni non rinunciano mai ai parametri di filologia e storia.
Nella sua produzione si colgono due fasi, la prima che sembra chiudersi con Baarìa nel 2009 ha per principale filo conduttore la Sicilia come metafora del mondo, ben nota prospettiva di Sciascia; la seconda, che si proietta verso una ricerca metafisica, preannunciata da Una pura formalità del 1993 e divenuta evidente nella Leggenda del pianista del 1998, si è andata consolidando negli ultimi due film (La migliore offerta e La corrispondenza), dalla forte tensione illuministica. Sarebbe un errore contrapporre le due fasi in termini evolutivi, come se la Sicilia fosse da ultimo uscita di scena: quello che emerge ininterrottamente per tutta la lunga ricerca di Tornatore è la coerenza e la fedeltà a una stessa linea metodologica: “ogni film è un’opera prima”. La svolta nella scelta dei temi non è certo un rifiuto delle tematiche siciliane, significa invece sperimentazione, esigenza di guardare a nuovi orizzonti, dove la Sicilia, la formazione siciliana del regista continuano a riflettersi in modo indiretto. Non è un processo irreversibile, perché tra le sequenze dei film ambientati sull’isola pullulano idee problemi e volti di personaggi che continuano a chiedere insistentemente al loro autore di vedere la luce.
Vorrei muovere da uno scritto di Tornatore del 2011 molto pregnante sul piano teorico, che illustra la genesi e il processo di un film; ecco con parole sue i punti salienti: “la fase più decisiva è l’incubazione dell’idea; i pericoli per la sua realizzazione cominciano con la scrittura del progetto”. Il termine scrittura riferito al film ha per Tornatore un punto di vista particolare: “nel processo di creazione non c’è mai scrittura, ma solo e soltanto riscrittura. Il primo mettere l’idea nero su bianco è già una riscrittura […] Dalla prima formulazione del soggetto è una continua discussione dell’idea originale […] è già nel soggetto che l’idea diviene altra cosa rispetto […] alla prima intuizione. Dal soggetto […] alla sceneggiatura. Altra riscrittura, altro tradimento. C’è poi la fase della pre-produzione, ovvero la sagra delle riscritture di un film. La ricerca delle location, il rapporto tra l’assoluto della scena scritta sulla pagina e la sua proiezione in un luogo reale o ricostruito. Anche la creazione del cast è una riscrittura del film: i misteriosi e perfetti volti dei personaggi devono diventare volti veri, gli attori si devono adattare ai personaggi e i personaggi all’attore. Le riprese sono un’altra riscrittura, con i tradimenti della luce, i capricci della meteorologia, gli incidenti di percorso, i compromessi organizzativi, la verifica delle azioni e dei dialoghi. L’ennesima la più drastica delle riscritture è il montaggio, la fase in cui ogni inquadratura deve rinunciare a una parte di sé stessa per consentire alle altre di esprimere la loro funzione narrativa. Ma la riscrittura del film continua anche dopo il montaggio con la postproduzione, la sonorizzazione, la musica, gli effetti sonori, il doppiaggio, il missaggio”. Con le riscritture a opera finita, entriano nel mondo della fruizione, con le sue regole e i suoi condizionamenti.
Ho voluto indugiare sulla descrizione del processo creativo del film da parte di Tornatore perché da filologo ho colto in essa i tratti fondamentali che per noi caratterizzano la genesi e la realizzazione di un’opera letteraria, al di là ovviamente delle specificità dei due generi. Coincidiamo perfino nel considerare l’originale assoluto nell’idea progettuale che prende forma nella mente dell’autore. La prima considerazione è che nello studio della filologia d’autore non è contemplata in parallelo la dinamica filologica dei film: una maggiore interazione tra questi processi è una necessità culturale del nostro tempo, e mettere a disposizione dei filologi analogie e discrepanze fra procedimenti affini di generi tanto diversi sarebbe uno straordinario arricchimento. Certo con i dovuti distinguo sul versante del concetto di autorialità, ma neppure un testo iconico può sottrarsi alle leggi della filologia.
‘Riscrittura’ non è per noi termine filologico, bensì retorico, ma è chiaro che il maestro lo adopera nel senso in cui i filologi parlano di redazionalità. Nelle sue parole il film è illustrato come se ci trovassimo all’interno di una bottega artigianale, forse l’ambiente che meglio caratterizza Tornatore. La sua tensione verso gli aspetti teoretici della nascita del film ha alle spalle una giovinezza di lavoro artigianale, fatto di rapporti tattili con bobine e pellicole, di super8, di infiniti percorsi fotografici, in una parola di dettagli.
Era ciò che osservava Guttuso nella famosa recensione al documentario sul carretto siciliano di Peppuccio Tornatore pubblicata su “L’ora” nel 1980: “ho sempre creduto di conoscere bene il carretto e le sue parti. Vedendo questo straordinario film […] ho imparato un’infinità di cose, di dettagli, che non conoscevo”. L’attenzione verso i dettagli è marcatamente riconoscibile in tutti i film; dettagli non solo fisici, ma anche mentali, fonici: emblematica è la ricerca coi rumoristi della definizione del suono delle campane delle varie chiese di Bagheria: “perché da ragazzino sentivi e capivi, questa è la Madrice e questa è le Anime sante, non si potevano confondere”. E’ la filologia delle piccole cose, “esercitata su forme umili” che Piero Violante contrappone a quella ricercata da Visconti sulle nobili tematiche lombarde.
A un approccio a tutto tondo verso la cultura regionale Tornatore aveva dedicato un lungo tirocinio nella sua giovinezza, con documentari che gli hanno consentito una non comune formazione antropologica, sociale e civile: ne ha fatto una intelligente presentazione Ninni Panzera in un saggio edito da Indiana University (a lui sono grato per la generosità con cui ha messo a mia disposizione il suo prezioso archivio bibliografico e filmico). Questa nutrita serie di documentari è una vera miniera cui Tornatore continuamente attinge: da essi partono infatti molti fili che saranno pienamente sviluppati in Nuovo Cinema Paradiso e soprattutto in Baarìa, da essi trae movimento l’afflato verso gli uomini con i loro antichi rituali familiari e linguistici, e verso i luoghi, le luci, i colori, perfino gli odori del passato. Da questa veglia d’armi di un Tornatore che gira per le strade con la rolleicord per catturare i volti e le sfumature cromatiche di uomini intenti a lavorare, amare, odiare, ignari di diventare personaggi, parte una spirale che percorre molti suoi film con forte spessore autobiografico: Panzera ricorda le parole di Onoff, in Una pura formalità: “portavo sempre con me una piccola macchina fotografica, raccoglievo i volti di chiunque incontrassi, dovunque andassi”, e la connessione è garantita dal fatto che dal sacco di vecchie foto riversate dal commissario sul tavolo si dispiega una evidente prosopografia di individui e gruppi di famiglia siciliani, in un film dal quale la Sicilia è apparentemente esclusa: chiara proiezione delle vecchie foto scattate da Tornatore. Dai volti dei passeggeri e dalle loro intuite storie dipende anche integralmente la conoscenza del mondo da parte di Novecento.
La cultura di Tornatore non è ovviamente solo cinema, ma è filtrata attraverso le lenti del cinema. Questo è un tratto unificante di tutti i suoi film: l’innesto di nozioni cinematografiche, l’avvio di un processo di intertestualità, mirano a fornire agli eventi uno sfondo storico di riferimento, in certo qual modo a creare un contesto. Profondamente nutrito di cultura cinematografica, il maestro non rinuncia a trasfigurare la realtà nei prodotti filmici. Nei giovanili documentari dedicati a Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia Tornatore ha studiato il rapporto tra letteratura siciliana e cinema: colpisce in particolare l’affresco su Brancati sceneggiatore. Il brogliaccio che maggiormente dispiega la sua competenza in questo campo è di sicuro L’ultimo gattopardo del 2010, uno splendido ritratto di Goffredo Lombardo, ma sarebbe più esatto dire una storia del cinema italiano colto da un particolare angolo visuale: le fortune e le sfortune di una famiglia, da Gustavo e Leda Gys che ebbero un ruolo fondativo nel cinema muto al figlio Goffredo, cui lo stesso Tornatore deve molto nel suo laborioso debutto con Il camorrista. Ma un ruolo speciale in questo settore ha avuto l’articolato e lungo rapporto con il regista Francesco Rosi, la cui grande biografia culturale è tracciata sotto forma di intervista in un volume del 2012. Da Rosi Tornatore ha mutuato non solo la ricerca del contesto storico e il considerare il film un fatto eminentemente politico, ma anche intuizioni estetiche e tecniche (ad es., l’ammirazione che il regista ha più volte manifestato per le immagini incipitarie di alcuni film di Rosi come Salvatore Giuliano sarà stata alla base della cura con cui egli sceglie per i suoi film gli inizi, che assumono quasi la funzione di vero e proprio prologo). Il documentario dedicato a Sciascia si conclude con un’intervista destinata a riecheggiare spesso nella produzione di Tornatore: particolare rilievo a essa è dato nella parte conclusiva di un film/antologia sulla Sicilia, dal titolo Lo schermo a tre punte del 1995, che evidentemente ha un ruolo singolare in tutta la sua filmografia. Il sapere cinematografico di Tornatore sull’isola è qui organizzato come un romanzo in cui sfilano in reciproco colloquio non solo i registi ma anche i personaggi di ogni epoca e di ogni ambiente. Una teoria di attori che si confrontano, si scontrano o solidarizzano, si commentano e aizzano, si invitano reciprocamente alla rassegnazione, fornendo ora un’idea unitaria dell’isola e dei suoi problemi, ora una griglia di irrisolte contraddizioni; ne vien fuori un prontuario di citazioni ad amplissimo spettro culturale, che nell’incalzante susseguirsi delle sequenze consegna al tempo stesso i motivi salienti della mitografia isolana, e le chiavi della loro demitizzazione. Con questo film Tornatore si interroga sulla tenuta dei cliché, e in certo qual modo fa i conti con la tradizione: sembra quasi di essere a una svolta, in un momento di crisi. Forse non è un caso che nel film successivo, La leggenda del pianista sull’oceano, la Sicilia subisce una momentanea eclissi dall’immediato orizzonte del maestro.
Per uno spirito radicato nella storia e nella geografia dell’isola, era inevitabile che il reticolo culturale della ricerca gravitasse sull’immensa letteratura che dall’antichità classica all’età contemporanea ha investito la Sicilia. Nuovo cinema Paradiso, da più parti è stato visitato con la prospettiva critica dell’Odissea. Cito a solo titolo esemplificativo da un contributo del 2014: “la Sicilia diventa simile a Itaca: il nostro eroe [Totò] l’ha dovuta lasciare a causa di Elena, ha vissuto gloriose avventure e vi è tornato molto tempo dopo, accolto dal suo vecchio cane”; “Quando suona alla porta, sua madre […] corre ad aprire tenendo in mano i ferri del lavoro a maglia che, perciò, nella corsa si disfà progressivamente” (l’allusione è a “Penelope”). Se Totò è Odisseo, il cieco Alfredo, che è stato in qualche modo autore (e ‘narratore’) della sua esistenza, non può essere altri che Omero”. In materia di classicismo occorre distinguere. Due sono le vie attraverso cui esso opera nella cultura contemporanea: una ad azione diretta dei classici sugli intellettuali, l’altra via che vede solo indirettamente interagire i classici, lungo percorsi sotterranei, con la mediazione di modelli non sempre precisabili, quali romanzi, saggi critici o addirittura film. Trattandosi di Omero, un regista come Tornatore può avere attinto all’una e all’altra via, ma su altre conoscenze che gli sono attribuite da qualcuno, come la sua presunta convergenza nelle sceneggiature sugli schemi e gli scopi della retorica classica, restano molte ombre di dubbio (e la ragione è che la retorica classica può incidere su un autore moderno attraverso mille indirette e pure inconsapevoli occasioni). Per tornare a Totò, è innegabile che il regista ne abbia voluto fare un ulisside: è la struttura del racconto a dircelo, con partenza dall’isola e ritorno. Ma non è stato rilevato che in realtà i ritorni nell’isola sono due, e in questo c’è una apparente anomalia rispetto alla sfera odissiaca: Totò ritorna in Sicilia dopo il servizio militare e poi celebra il grande e vero ritorno dopo un’assenza trentennale. A Tornatore non interessa fissare i contorni di un ordinato rapporto con Omero, preme invece mettere in campo accorgimenti che suggeriscano allo spettatore l’accostamento a Odisseo e alle sue peripezie. Per questo dissemina la pellicola di demarcatori odissiaci: quali la proiezione dell’Ulisse di Mario Camerini prima della partenza del ragazzo, l’accoglienza festosa che il solo cane nella piazza assolata riserva a Totò, come Argo a Odisseo, e la maglia della madre, non della sposa, che si disfà. Tornatore non vuole aderire alla verità del racconto omerico, vuole invece solo alludervi; e i personaggi non sono sovrapponibili a quelli omerici, ne assumono piuttosto le funzioni. La più complessa figura è quella del cieco Alfredo. Per poterla bene interpretare, bisogna capire che il primo ritorno di Totò in Sicilia non è solo un ritorno, è una sorta di catabasi, una discesa agli inferi (Totò tocca il fondo della disperazione, che si trasforma in una molla decisiva per la partenza). Alfredo con la cecità ha cambiato registro, parla in tono più enfatico, più solenne: “Ora che ho perso la vista ci vedo di più”; fino a quel momento aveva fatto le veci del padre, ora riveste il ruolo del profeta. Alfredo salda il destino di Totò a quello del soldato innamorato della figlia del re che gli aveva chiesto come pegno d’amore di rimanere sotto il suo balcone per cento giorni e cento notti; ma alla novantanovesima notte il soldato ruppe il patto e si dileguò: “Fa come il soldato, Totò. Vattinni, chista è terra maligna, fin a quando ci stai tutti i giorni ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente; …bisogna andare via […] per moltissimi anni per ritrovare al ritorno la tua gente, la terra unni si natu… non voglio più sentirti parlare, vogghju séntiri parrari di tia” e ancora : “non tornari più, non ci pensari mai a nui, non ti voltare indietro” (ed è chiaro che nella parola “voltare” rivive il mito di Orfeo). E’ grande la suggestione che Alfredo il cieco assuma in questa fase del film anche la funzione del profeta cieco veggente, Tiresia, che nell’oltretomba aveva intimato a Odisseo di tenersi lontano dalla Sicilia.
In un punto centrale del dialogo sulla memoria con Ferdinando Scianna, Tornatore riconosce che la strada seguita con Nuovo Cinema Paradiso è l’allegoria, mentre nell’approccio a Baarìa aveva privilegiato la storia. In realtà la storia entra dappertutto nei suoi film, ovviamente con incidenza differenziata, ma non si tratta della storia per così dire ufficiale, criticamente accreditata, è bensì una storia osservata dal basso, riflessa all’interno del clan familiare, della più ampia comunità di Bagheria, o a misura di una sezione di partito. (Guttuso aveva detto a Tornatore: “un artista parla solo delle cose che conosce, delle cose che sa”). Il pendolo che scandisce le pellicole di Tornatore è l’etnostoria, cioè la storia filtrata attraverso la memoria personale e familiare allargata all’intera collettività, che per la prima metà del Novecento coinvolge anche la cinematografia. Tornatore intreccia i dati storici ed etnostorici con le vicende dei suoi racconti (e questo anche in Nuovo Cinema Paradiso, e in Malena): emblematico di tanti aneddoti accolti e sviluppati in Baarìa è l’episodio di Renato Guttuso sedicenne chiamato a dipingere la scena dell’ascensione nell’abside della chiesa di Aspra. Un episodio ripetuto e favoleggiato mille volte nel paese di Bagheria, che Tornatore intreccia a vari livelli con le vicende di Peppino e Mannina: la prima volta quando il giovanissimo pittore seleziona Peppino dopo averne scrutato in profondità i lineamenti del volto, e poi in un momento di discussione tra il pittore e il sacerdote committente sulla tipologia dei modelli prescelti, e ancora nell’indugio sulla reazione maliziosa davanti alle immagini dei fedeli raccolti per il movimentato matrimonio in chiesa del comunista Peppino, fino all’inaspettata eclissi dell’affresco ricoperto per ordine del cardinale davanti agli occhi attoniti di Mannina andata quasi in pellegrinaggio con i suoi bambini per contemplare le fattezze infantili dello sposo lontano. Il fare interagire l’episodio in fieri nelle varie stratigrafie del racconto è meccanismo esemplare in Baarìa, la stessa cosa si verifica con diversi episodi della vita di Ignazio Buttitta o con la misteriosa presenza sempre immanente di Villa Palagonia, e per momenti che hanno marchiato a fuoco la coscienza del paese come la gioia incontenibile della folla alla caduta del fascismo (anche nel corso dell’assalto al municipio la piccola mano che deve sfilare i soldi dalla cassaforte è quella di Peppino). L’etnostoria convive anche con la semiologia dei sogni (quello delle uova rotte e, particolarmente ricorrente, quello delle serpi nere (per l’occupazione delle terre, la morte del padre, la fine della vita), o delle ambasciate per i morti fatte al padre di Peppino agonizzante, o di antiche leggende: una è Leitmotiv del film, la pietra che deve colpire le tre rocce perché riemerga il tesoro nascosto, prova che Peppino riesce a superare solo alla fine della vita, quando al posto del tesoro scorge strisciare tra i sassi grovigli di serpi nere. La storia in Baarìa non è storia di individualità, è respiro epico di un popolo, dimensione corale di stagioni che si rinnovano perpetuamente nella memoria; è lo stesso Tornatore a confessarlo: “il film è fatto da un grande coro con pochissimi coreuti, ma continuamente i componenti del coro diventano protagonisti, rubano la scena e vanno via”. È questa forse la maggiore differenza rispetto alla cifra felliniana di Amarcord, perché in Tornatore la memoria è una spirale che non consegna con eleganza tragica e comica solo singoli episodi della giovinezza perduta, ma è una piena dove tutto è sopra le righe, dalle voci sempre troppo forti ai colori straripanti, alle lingue che è sbagliato interpretare con lo schema dialetto/italiano, come molti fanno, perché qui, con alterne vicende, a fronteggiarsi sono due lingue che lottano per l’affermazione in modo anche violento. Una memoria che è sofferenza maieutica del passato, “anche un po’ morire”, come recita la canzone d’autore che pervade Una pura formalità. I segni iconici di Baarìa possono essere la Vucciria e la Battaglia di ponte dell’ammiraglio di Guttuso, o sul versante cinematografico Giuliano a Portella delle ginestre.
Qualche riflessione sui film che mettono in scena romanzi; questo succede raramente a Tornatore, ma è interessante il rapporto che si instaura tra La leggenda del pianista sull’Oceano e il monologo Novecento di Alessandro Baricco. E’ chiaro che il regista ha recepito la lezione di Sciascia secondo cui il film risponde a diverso regime autoriale e deve perciò essere infedele. Guardando in filigrana libro e film si può constatare come la cerebrale architettura di Baricco è trasformata in una storia costruita con la tecnica della ringcomposition molto amata da Tornatore. Egli ridisegna i caratteri, introducendone altri ex novo, che cambiano del tutto gli assi di costruzione della vicenda, e modifica la storia con l’invenzione della matrice del disco, che sarà determinante per l’ultima epifania di Novecento, distribuisce i fatti su diversi livelli temporali, anche questa tecnica costante nella produzione del regista, nella quale egli riconosce un’assoluta peculiarità del cinema. Se l’idea originaria è identificabile con quella di Baricco, l’immensa nuova spazialità fisica e mentale che informa il film, le scelte dinamiche di espansione della musica rendono il precedente monologo una larvata memoria.
Solo una parola, in chiusura, sul collante che a mio parere lega tra loro in modo indissolubile tutti i film di Tornatore, la costante introduzione di elementi surreali, il ricorso al paradosso: è come se in ogni pellicola il regista tenti di avvicinarsi a quel punto improprio teorizzato da Onoff in cui due linee parallele all’infinito potrebbero incontrarsi. Proprio a questi elementi surreali si affida infatti il senso più schietto della poetica dei film. L’apparizione delle sfere mostruose sulla spiaggia di Tindari nel sogno di Matteo Scuro in Stanno tutti bene, o l’intero episodio de Il cane blu dal soggetto di Tonino Guerra, ma anche il prologo con la sfilata delle donne con maschere ne La sconosciuta o lo stesso gigantesco polipo che viene offerto al pennello del vecchio Guttuso in Baarìa (ma l’elenco potrebbe continuare a lungo) sono tutti vettori di poesia, innesti di fiabesco nel quotidiano della vita. Un capolavoro surreale è L’uomo delle stelle, una metafora sulla poesia del cinema che si sparge come polline al vento in diverse comunità siciliane, con esiti imprevedibili, a volte devastanti. E il paradosso è presente, addirittura con più intensa caratura di poetica, anche negli ultimi due film non siciliani. Il fascino del surreale è avvertito certamente da Tornatore per il suo status di siciliano abituato a vivere nelle contraddizioni perenni della sua terra, nelle proiezioni di una letteratura (e cito solo Pirandello e Sciascia, ma anche Bufalino) che ha storicizzato il mito e mitizzato la storia, ed è al tempo stesso una via di fuga e una prospettiva salvifica di speranza.
Per i motivi qui illustrati e per i meriti a lui riconosciuti chiedo che sia conferito al maestro Salvatore Giuseppe Tornatore il titolo di ‘Dottore di ricerca honoris causa’ in ‘Scienze storiche, archeologiche e filologiche’.