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Quegli spregevoli otto

Quegli spregevoli otto

THE HATEFUL EIGHT di Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern. (Usa, 2015). 187 min. (versione 70 mm), 167 min. (versione digitale)
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No, che prima o poi doveva succedere. Perché ci sono precise linee evolutive, nell'universo, e il cinema non fa eccezione. Sicché ce lo aspettavamo (i più sfacciati di noi, tipo me, lo speravano addirittura) da Tarantino, giunto all'ottavo film: lo dice (che è l'ottavo) nei titoli di testa proprio lui, formidabile mattacchione che gioca con le cornici narrative fino da subito e persino fuori dalla sala, con le sue scelte di pellicole desuete nell'era digitale e di 70 mm – il formato di “Ben Hur” e “Gli ammutinati del Bounty” – perché le dimensioni contano; e che importa se tanto poi lo vedremo comunque in digitale (solo pochissime sale supportano il 70 mm), o in streaming o su mortificanti video da palmari: l'epica è un'intenzione e una dichiarazione d'intenti e una sintassi profonda (il passo d'Omero resta in esametri anche se lo sminuzzi su Whatsapp).
Ce lo aspettavamo, che prima o poi Tarantino portasse alle estreme conseguenze quel trabocchetto narrativo che tanto gli piace: chiudere in uno spazio angusto un certo numero di personaggi esplosivi – archetipi portatori di storie in rotta di collisione e caratteri maledetti – e innescare la miccia.
“The Hateful Eight”, gli spregevoli otto (gli otto “odiosi”, ma anche “carichi d’odio”), sono i candelotti vivi di questa superba installazione cinematografico-dinamitarda, questo attentato esplosivo. Ma stavolta, a differenza di “Bastardi senza gloria” e “Django Unchained” (altri capitoli della trilogia western-nonwestern, semmai trilogia della giustizia poetica), non ci sono incendi purificatori: non è necessario o forse non è possibile. Che poi sarebbe il modo in cui Tarantino concepisce il cinema e, chissà, forse la vita.
Una cosa tipo raccogliere dinamite dai set di mille film, collazionare/collezionare corde e intrecciare micce e mettere su una diavoleria di pietre focaie, detonatori d'epoca, gocce di nitroglicerina, tocchi di Tnt digitale, poi scavare un sentiero nella neve e allontanarsi, gettando il fiammifero (magari preso da uno spaghetti western degli anni 60), aspettando il botto.
La neve perché siamo in Wyoming, l'equivalente freddo del deserto di Sonora quanto a inospitalità (con un che d'aspromontano – sia detto da una calabrese – nelle interminabili, filologiche sequenze dei titoli di testa, dove spicca un Cristo di legno afflitto che sembra preciso quello di Zervò: i crocevia dei dolori umani si somigliano tutti), protagonista esso pure di quell'accerchiamento asfissiante dei nostri terribili otto, con dita di bufera e pulviscolo nevoso che s'allungano dentro ogni inquadratura.
Che poi uno capisce a cosa servono la pellicola e i 70 mm appunto quando si trova sigillato dalla tormenta di neve assieme agli “spregevoli otto” dentro un maledetto emporio di legno dove – alla faccia di ogni stupidissimo, inutile 3D – ogni dettaglio, ogni colore ha un peso iperrealistico sulla percezione, ogni venatura e sbreccatura e ruga (moltissime rughe e tumefazioni: i nostri otto sono un campionario di corpi usurati, slabbrati, illividiti, conciati, esattamente come le loro anime di avventurieri, cacciatori di taglie, bari, bugiardi e sadici).
Impossibile empatizzare con alcuno di loro: la spregevolezza è uno stigma fisico e psicologico immediato, con un di più, devo dire, per l'unica donna, la strepitosa Jennifer Jason Leigh, che per questo ruolo è giustamente in lizza agli Oscar, sanguinante fin dall'inizio ma destinata a richiamarci prima una sorta di Linda Blair del West e poi addirittura una demoniaca “Carrie lo sguardo di Satana”, perché il cinema di Tarantino da piccolo è caduto in una tinozza di pellicole di genere e anche l'horror qui s'apprezza a piene mani e occhi.
Sicché non ti resta che tifare per l'inverno furioso del Wyoming (che ha una sua purezza, un che di cristallino nella fotografia superba di Robert Richardson, lui pure in nomination agli Oscar), o per il narratore onnisciente che si permette persino un'incursione diretta (e significativamente la voce, nella versione originale, è dello stesso Tarantino): che di tuo, tu spettatore onniscemo, magari convinto di star guardando un western e non un giallo della camera chiusa incrociato con un horror, non l'avresti mica potuto capire o vedere, quel dettaglio (e il diavolo, nel cinema di Tarantino, sta ovunque ma soprattutto nei dettagli).
Così, complice la colonna sonora di Ennio Morricone (tornato per l'occasione al western e candidato all'Oscar: in qualche misura, usare lui è come fare un omaggio al "catalogo", al genere intero. Molto tarantiniano), segui affascinato una vicenda compressa in pochissimo spazio ma a suo modo “larga” di visione, perché questo è il cinema, bellezza, e tutti quelli che parlano di “The Hateful Eight” come di un “dramma teatrale” meriterebbero di restare anche loro chiusi nell'emporio, così fitto di citazioni e storia del cinema e “specifico” cinematografico, così potentemente abitato da una riflessione profonda ma scanzonata, rigorosa ma guascona sulla settima arte, da risultare ancora più affollato e claustrofobico di quanto non sembri (che poi è il rischio vero che Tarantino corre ogni volta).
Incrociando citazioni e sequenze, di altri e dello stesso Tarantino, il cui corpus ormai richiama e cita se stesso: la scena della botola di “Bastardi senza gloria” e tutto “Le Iene”, il personaggio waltziano di Tim Roth, ricalcato sul dottor Schultz di “Django”, e gli stessi attori che tornano in ruoli diversi in un ulteriore gioco metatestuale, come lo schiavo colluso di Samuel L. Jackson in “Django” che qui diventa giustiziere dei razzisti bianchi (esattamente come Waltz-Schultz, europeo inorridito dal razzismo americano, era stato in “Bastardi senza gloria” lo spietato nazista...).
Che alla fine viene da pensare: e se l'America (no, non gli Stati Uniti, che è voce politicamente corretta: l'America come ce la siamo sognata noi e Tarantino, al di qua degli schermi, degli eroi, delle epiche) fosse questo, una camera chiusa in cui sono stipati nemici giurati – che siano neri e bianchi, banditi e sceriffi, nordisti e sudisti, cacciatori e prede, linciatori e linciati – con un certo numero di armi e di segreti, e non può che finire nel sangue, il sangue di tutti, senza che sia possibile distinguere chi è nemico di chi, o quale fosse la differenza originaria?
«Il nome del gioco che giochiamo è pazienza» dice a un certo punto uno degli otto (che intanto non sono più otto, ma questo è scontato e agathacristiano, posto che il canovaccio più immediato di riferimento siano i “Dieci piccoli indiani”, il cui titolo originale, per giunta, è molto pertinentemente “Ten Little Niggers”: ognuno è l'indiano e il negro di qualcun altro, e in America anche tutti e due): forse il gioco che giocano è Nazione, con tutte le sue segregazioni, le sue “Intolerance”, le sue giustizie contraddittorie, i suoi giustizieri ingiusti. La sua – diciamolo – violenza, che è cuspide e cardine di tutte le sacre rappresentazioni tarantiniane, ma anche “ground zero” quotidiano e reale e tragico della Nazione Americana.
E infine l'unica cosa, nel film, che non sia polvere da sparo, corpo tumefatto o sangue, l'unica cosa che si sollevi dal carnaio dell'umanità disumana degli otto sono le parole d'una lettera di Lincoln (sì, proprio il padre della Patria, quell'immenso emporio pieno di nemici che lui intese pacificare e comporre) che suona tanto tanto Obama e su cui persino quei dannati, spregevoli tagliagole s'inteneriscono: «I tempi cambiano con lentezza ma con certezza».
Sarà ironia, o speranza? Intanto, è cinema.

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