L’Italia è un Paese misterioso e contraddittorio, dove coesistono grandi bellezze e irrimediabili bruttezze, il Medioevo con le sue salme sta accanto alle eccellenze scientifiche, si fanno leggi importantissime con nomi in inglese ma ci sono senatori che non sanno pronunciare con decenza la parola “adoption”. E solo nelle contraddizioni italiane potrebbe prosperare una cosa come il Festival di Sanremo, programmone Ogm che sfugge a qualsiasi definizione, non essendo solo una gara canora, né solo un varietà, né alcuna altra cosa conosciuta, ma costituendo comunque una calamita irresistibile per il pubblico (10 milioni di telespettatori di media, in questo Conti-bis).
E se partiamo dal presupposto che l’audience ha sempre ragione (come la maggioranza in democrazia), vuol dire che il Festival ce lo meritiamo proprio così com’è, con Conti-Mattarella garante costituzionale della solita, ciclopica operazione di ostensione della salma della canzone italiana, coi suoi ritornelli rassicuranti. E non è un caso che Elio e le Storie Tese, la solita scheggia impazzita portatrice almeno d’un granello di devianza – e gli saremo comunque sempre grati per questo – , abbiano fabbricato una canzone di soli ritornelli, un frankenstein che, di fatto, fa il verso al gigantesco frankenstein del Festival, dove si trova tutto e il contrario di tutto: passato e presente, autenticità e fiction, zigomi veri e finti, Modugno e Twitter, vecchie signore e giovani rapper, belli ma poveri di spirito e belle ma ricche di spirito che fanno persino le imitazioni (ma prendono lo stesso cachet di quelli che leggono il gobbo e sbagliano pure). Non sono mancati i momenti di commozione collettiva: lo straordinario Ezio Bosso, musicista disabile (ma ci piacerebbe che la Rai, per esempio, trasmettesse un suo concerto in prima serata, magari al posto di qualche fiction: troppo facile cavarsela con tre minuti e inquadrature ruffiane alle violiniste in lacrime); un grande Nino Frassica, con la sua maschera stralunata e il coraggio di parlare di migranti. E gli ospitoni internazionali: la bambolona Kidman a dire – guarda un po’ – che «i figli so’ piezze e core» e Sir Elton John che almeno ha cantato, per ricordarci che la musica vera esiste, fuori da Sanremo, e lotta assieme a noi. Il tutto amministrato con efficienza dal ministeriale Carlo Conti.
Né polemiche né opposizioni, e pazienza se in tanti si sono presentati sul palco coi “nastri arcobaleno”, a sostegno della lotta che una parte del Paese sta combattendo per le unioni civili: a Sanremo tutto scivola e si mescola, tutto si centrifuga in una pappa rassicurante che non scontenta nessuno.
Una polemica però la facciamo noi: vorremmo che l’Accademia della Crusca si pronunciasse sullo scempio dell’italiano perpetrato in concorso (ma anche fuori concorso) dal palco dell’Ariston. Tra canzoni di dubbia sintassi e gobbi letti malamente, anglo-dialetto, congiuntivi latitanti e concordanze dolose, l’emergenza lingua – ci sembra – viene persino prima dell’emergenza musica leggera. Sob.
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