L’Accademia della Crusca è viva e lotta assieme a noi. Potrebbe essere questa una delle (tante) morali della vicenda “petalosa” che in questi giorni ha mostrato con efficacia il cortocircuito del reale in cui talora viviamo. “Petaloso” è la parola che il piccolo Matteo, 8 anni, alunno della terza elementare Marchesi di Copparo, a Ferrara, ha piazzato in un compito. Un grande classico delle elementari: scrivere due aggettivi per ogni nome. A «fiore», Matteo ha accostato «profumato» e «petaloso». L’attenta maestra Margherita Aurora, correggendolo, ha scritto «1 errore bello», che di suo potrebbe ben essere una specie di squisito ossimoro, nella scuola diroccata dalla riforma Gelmini e che resta pur sempre, malgrado gli hashtag volenterosi del governo, la cenerentola che sappiamo.
Ma la maestra Margherita ha fatto di più: «La parola, benché inesistente, mi è piaciuta, così ho suggerito di inviarla all’Accademia della Crusca per una valutazione. Abbiamo ricevuto la risposta, precisa ed esauriente. Per me vale come mille lezioni di italiano. Grazie al mio piccolo inventore Matteo».
E anche qui c’è una parte di bellezza di questa storia: un’adulta che s’accorge dell’invenzione d’un bambino, e pensa di valorizzarla («Matteo è stato bravissimo – dice ancora la maestra – , ma poteva accadere anche con un suo compagno. Io cerco sempre di sviluppare nei miei alunni una certa fantasia, una certa creatività, e credo che quello che è successo sia frutto del lavoro che, tutti insieme, facciamo. Anche un errore, come ricordava il grande Gianni Rodari, può diventare una splendida novità. E così è stato»). Di più, una maestra che pensa di scrivere, segnalando l’ “invenzione” lessicale del suo scolaro, all’Accademia della Crusca, nobilissima istituzione che è per tutti noi baluardo ultimo degli attacchi che ogni giorno vengono portati alla lingua italiana da ogni dove: dalla televisione (l’ultimo Sanremo è stato la prova imbarazzante che la scolarità non produce necessariamente competenze linguistiche, e soprattutto che queste non sono considerate indispensabili sul piccolo schermo, nemmeno nella tv di Stato) alle aule istituzionali (alcuni dei discorsi pronunciati negli ultimi giorni in Senato a proposito delle unioni civili richiederebbero una sanzione apposita: la perdita dei titoli scolastici a ritroso fino alla materna oppure un corso di rieducazione alla sintassi che preveda pene corporali).
Figuriamoci poi quando l’Accademia medesima risponde, elogiando tanta creatività e addirittura ipotizzando un futuro per quella parolina, «petaloso». «La parola che hai inventato – si legge nella risposta dell’Accademia, inviata da Firenze il 16 febbraio scorso – è una parola ben formata e potrebbe essere usata in italiano così come sono usate parole formate nello stesso modo: tu hai messo insieme petalo + oso, petaloso, pieno di petali , con tanti petali. Allo stesso modo in italiano ci sono pelo+oso, peloso, pieno di peli, con tanti peli e ancora coraggio+oso, coraggioso, pieno di coraggio. La tua parola è bella e chiara. Ma sai come fa una parola ad entrare nel vocabolario? Perché entri in un vocabolario, bisogna che la usino tante persone e tante persone la capiscano. Se riuscirai a diffondere la tua parola tra tante persone e tante persone in Italia cominceranno a dire “Come è petaloso questo fiore”, ecco allora petaloso sarà diventata una parola dell’italiano».
D’altronde, questo è ineccepibile: le parole nascono in modi diversi, ma per dirsi a pieno diritto parte di un lessico condiviso devono comunque fiorire. E cosa c’è di più facile, al tempo dei social, e al tempo di un premier che più social non si può come Matteo Renzi?
Rilanciato da Twitter (che sarà pure in bassa fortuna in Borsa ma resta il social più dinamico, reattivo e divertente del pianeta), poi da Facebook, «petaloso» è diventato virale, viralissimo (una cosa come avere milioni di televoti a Sanremo, o di voti alle primarie del Pd, visto che di altre elezioni, oltre che nei condomini, non si parla più). Ed è stato ripreso dall’altro Matteo, il Renzi gran twittatore: per spiegare al Piccolo Teatro di Milano il progetto per il posto Expo “Human Technopol” ha usato quella parolina fresca fresca (e già popolarissima), «petaloso». «Questo è un progetto che potremmo definire “petaloso” – ha detto Renzi – con più di un ambito di azione». E ha twittato un grazie al suo piccolo omonimo: «Grazie al piccolo Matteo, grazie Accademia della Crusca, una storia bella, una parola nuova».
Al tweet del premier sono seguiti tutta una serie d’altri messaggio d’entusiasmo in forma di tweet, come quello di Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e del suo dicastero. «Bravo Matteo – scrive il ministro – : La lingua è creatività e luogo di libertà #petaloso @AccademiaCrusca». Sull'account Miur Social, si legge, invece: «Bravo Matteo, brava la maestra che lo ha sostenuto. La scuola fa questo: incoraggia #petaloso».
Ora, al netto degli entusiasmi eccessivi (chiunque ha a che fare coi bambini sa che la loro inventiva linguistica è prodigiosa, e semmai un miracolo non è che inventino le parole, ma che noi adulti ce ne accorgiamo), ma anche degli sdegnosi riduzionismi (resta pur sempre una rinfrancante vicenda di attenzione, cura, amore per il linguaggio e fiducia nelle istituzioni che salvaguardano la trasmissione del sapere), o delle precisazioni oziose (c’è chi ha sottolineato che in inglese esiste «petalous», che significa «che ha i petali», ma finora nessuno aveva pensato di tradurla così in italiano, quindi...) la storia di «petaloso» fa piacere a chiunque abbia a cuore la conoscenza e sia sensibile alla nostra meravigliosa natura di animali linguistici. Che vorremmo, semmai, maggiormente tutelata, e non mortificata di continuo.
Per un «petaloso» che ce l’ha fatta, col suo carico d’immaginazione e sentimento, ricordiamo qui (una prece) le centinaia di parole che ogni giorno spariscono nell’appiattimento e la banalizzazione del linguaggio di cui troppe volte i media si fanno protagonisti o complici; ricordiamo con immutato amore le costruzioni sintattiche, la consecutio temporum che rischiano di diventare obsoleti dispositivi, nell’infuriare di una comunicazione sempre più spostata verso gli ideogrammi, con le “emoticon” o gli “emoji” che invadono ogni testo e tendono a sostituire la loro colorata fissità ai nessi e alle articolazioni del linguaggio. Ricordiamo il corpo vivo e (ancora) caldo della lingua condivisa, che vogliamo sempre più bella, più ricca. Più petalosa.
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