Dell’asservimento delle donne e del sesso come fattore discriminante e ostacolo al progresso sociale ed economico scriveva nel 1869 John Stuart Mill in “Sulla servitù delle donne”, libro-guida delle suffragette inglesi che poneva al centro della riflessione l’esclusione delle donne dalla cultura. Meno di un secolo dopo, nel 1949, in Francia, Simone de Beauvoir demistificava le idee convenzionali sul sesso femminile nel saggio “Il secondo sesso”, libro-bibbia del movimento femminista la cui idea centrale, «non si nasce donna ma si diventa», si declinava con la condanna della mitologia maschile e dell’ “inferiorità” femminile fissata nei “destini” di sposa, madre, lesbica, prostituta, mistica. Il saggio apparve in Italia nel 1961, e proprio negli anni Sessanta ebbe luogo la vera presa di coscienza del femminismo sia all’interno del movimento antimperialista che nella lotta per la partecipazione alla vita politica, perché – come scrisse la de Beauvoir in “Quando tutte le donne del mondo…” – le donne, divenute attiviste nella lotta di classe, si accorsero che anche lì erano il “secondo sesso” non meno che nella società che avrebbero voluto trasformare.
A “svegliarle” aveva certamente contribuito un saggio-guida pubblicato nel 1968 dalla statunitense Betty Friedan (1921-2006), che sicuramente conosceva il testo beauvoiriano e nel 1966 aveva fondato il National Organization for Women (ma era stata anche tra i fondatori della psicologia della Gestalt). “La mistica della femminilità” toglieva il velo all’immagine della donna “ideale” di classe media e media cultura, proprio quella fascia femminile che negli States si “era realizzata” nella famiglia.
Ma che il femminismo fosse una causa comune per l’uomo e per la donna per vivere in un mondo migliore e che il diritto all’istruzione fosse necessario alla conquista della dignità femminile lo avevano “scoperto” già le “protofemministe” Mary Wollstonecraft (1759-1797), londinese, madre di Mary Shelley, autrice di “Rivendicazione dei diritti della donna” (1792), Olympe de Gouges (1748-1793), francese che combatté per tutta la sua breve vita contro i pregiudizi di genere e morì sul patibolo, autrice della “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” (1791), Elizabeth Stanton (1815-1902) e Lucretia Mott (1793-1880), entrambe americane, che scrissero la “Dichiarazione dei sentimenti”, ispirata alla Dichiarazione d’indipendenza americana, e furono antesignane del movimento emancipazionista suffragista negli Stati Uniti, nonché organizzatrici, con Martha C. Wright e Mary Ann McClintock, della prima “Convenzione sui Diritti delle Donne”.
L’esercizio della letteratura come strumento di liberazione accomuna tutte le scrittrici che hanno militato o sostenuto il movimento femminista. L’esclusione dalla cultura già individuata da Stuart Mill e le nuove prospettive aperte dal movimento delle suffragette animano “Una stanza tutta per sé”, il saggio-romanzo (1929) di Virginia Woolf il cui titolo rimanda all’esigenza della libertà intellettuale delle donne per emanciparsi dall’oppressione patriarcale in cui si trovano confinate. E in Italia nel 1906 era stato il romanzo “Una donna” di Sibilla Aleramo a sdoganare l’immagine femminile svincolata dall’asservimento alla maternità, al matrimonio e alla famiglia. La scrittrice (1876-1960) si sarebbe impegnata nel movimento femminista come membro della sezione romana dell'Unione femminile nazionale, promuovendo l’istituzione di scuole serali femminili, esperienze che sarebbero confluite nel quaderno “La donna e il femminismo. Scritti 1897-1910”.
Nel 1969, un secolo dopo Stuart Mill, la riflessione sull’esclusione femminile dal mondo accademico in termini di carriera e di diritti minimi diede impulso in America ai women’s studies il cui nucleo storico si costituì nella Cornell University. Le filosofe femministe, tra le quali Hoff Sommers, Daphne Patai, Amy Gutmann, Linda Alcoff, Cynthia Freeland, Marilyn Friedman, i cui studi spaziano dall’antropologia alla giustizia, dalla famiglia alle politiche economiche, alla distribuzione della ricchezza, agli studi gender e queer, hanno avuto sicuramente un modello in Betty Friedan ma anche in studiose come Jane Marcus (1938-2015) o Elaine Showalter (1941), entrambe militanti di critica letteraria femminile (con saggi sulla de Beauvoir e sulla Woolf) e con studi nell’ambito del ginocriticismo e del linguaggio “maschile” come elemento discriminatorio nei secoli.
Il riscatto del “femminile” in America è passato anche attraverso gli studi archeomitologici di Marija Gimbutas (1921-1994), molto dibattuti ma anche seguiti dal movimento neopagano: a confutare il fatto che la cultura, la civiltà, i valori universali siano stati da sempre maschili, la Gimbutas, studiosa di iconografia e simbolismo del Neolitico, in “Il linguaggio della dea” leggeva le rappresentazioni femminili del Paleolitico e del Neolitico come espressioni di una unica divinità femminile alla base della civiltà europea, una Grande Madre manifestazione di varie divinità femminili.
Oggi è Judith Butler (1956) la filosofa statunitense di punta che si occupa di femminismo e Queer Theory. Attivista del movimento per i diritti degli omosessuali, il suo sguardo sul femminismo è nuovo e rigenerante: analizzando le dinamiche del potere, anche all’interno del movimento femminista, mette in guardia dal considerare come astoricamente comuni le caratteristiche delle “donne”. E infatti “Gender Trouble”, il suo libro più noto, contrario, secondo la lezione di Foucault, all’innatismo di genere, sviluppa la teoria che sono l’iteratività, la performance di genere e la norma disciplinaria a “creare” il genere.
Sul versante italiano la coscienza femminista unita alla ricerca filosofica e all’attivismo ha come figure di riferimento studiose come Luisa Muraro (1940), fondatrice a Milano nel 1975 della Libreria delle Donne, traduttrice di Luce Irigaray (la filosofa francese della differenza sessuale) e sostenitrice del femminismo dell’autocoscienza, un’eredità – ha dichiarato recentemente – che forse non è stata trasmessa alle nuove generazioni di donne.
Ma di filosofie delle donne oltre che di diritti civili e umani si occupano Nicla Vassallo (confronti con Martha Nussbaum, omaggio poetico a Virginia Woolf e il suo impegno nei gender studies); Silvia Vegetti Finzi (1938), con studi sulla psicologia e sui sogni femminili dell'infanzia e dell'adolescenza (si è occupata anche dei riti di iniziazione delle bambine nella Grecia classica e delle rappresentazioni iconografiche delle Grandi Madri); Adriana Cavarero (1947) tra le fondatrici insieme alla Muraro della Libreria delle Donne di Milano e della comunità filosofica veronese “Diotima” con studi sulla differenza sessuale; Francesca Brezzi, presidente dell’Osservatorio di Studi Genere, Parità e Pari Opportunità e membro del Direttivo Donne Filosofe promosso dall’Unesco oltre che dell’ “Università delle donne Virginia Woolf” di Roma e del Centro Documentazione Donne di Firenze, Michela Marzano, il cui campo di ricerca riguarda le tematiche del corpo, la manipolazione della donna e recentemente gli studi gender con “Papà, mamma e gender”.
E non si può tacere infine di Elena Gianini Belotti (1929), educatrice e pedagogista, peraltro apprezzata da Simone de Beauvoir per la sua teoria che la femminilità, come del resto la mascolinità, si costruisce, e che sono i condizionamenti culturali e ambientali a marchiare la differenza tra maschio e femmina. “Dalla parte delle bambine” (Feltrinelli, 1973) divenne un testo fondamentale dell’attivismo femminista italiano i cui temi sarebbero stati aggiornati e ripresi nel 2007 da Loredana Lipperini in “Ancora dalla parte delle bambine” (Feltrinelli).
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