Uno spettro s’aggira per il mondo. La disinformazione. Anzi, l’informazione tossica che, come la moneta cattiva, scaccia quella buona. E fa più danni delle bombe. Parola di Greg e Julio, giornalisti e cacciatori di storie in giro per il pianeta, lungo le rotte dell’abuso di potere, della delinquenza di regime, della sopraffazione dei più deboli (che a volte sono interi Paesi). Sono loro le “quattro mani” del romanzo di Paco Ignacio Taibo II detto PIT, scrittore militante, giornalista saggista e attivista, marxista sandokanista utopista, spagnolo ma messicano, narratore ma storico (e viceversa), ironico ma serissimo, che meritoriamente la casa editrice La Nuova Frontiera ha riproposto (la prima edizione è del 1990, la traduzione di Pino Cacucci e Gloria Corica), facendone peraltro oggetto e magnifico pretesto d’un “Revolución Tour” che ha toccato Perugia, Roma, Napoli, Bologna e si è concluso trionfalmente ieri pomeriggio al Salone del Libro di Torino, dove, per nostra fortuna, non c'è spazio solo per i Checco Zalone, i cantanti e gli chef.
E quindi eccoli, gli “eroi convocati”: Greg e Julio, uno gringo e uno messicano, e poi Sandokan e Yanez, le Tigri della Malesia, «vecchie ma non sdentate» (protagoniste d’uno scatenato “sequel” di Salgari, “Ritornano le Tigri della Malesia”, scritto da PIT nel 2011), e anche uno Stan Laurel sbronzo (proprio lui, Stanlio: dopo “Triste, solitario y final” di Osvaldo Soriano non sarà mai più soltanto quello di «oggi le comiche», per noi e per la letteratura, come certifica pure PIT) che assiste all’assassinio di Pancho Villa, Houdini e altri ancora. Perché, come al solito, i romanzi di PIT sono crocevia affollatissimi di storie, personaggi veri e/o inventati (poco importa, che ciascuna biografia è un tale distillato di studio e ricostruzione che la distinzione non ha gran significato), vicende epocali o privatissime che s’intersecano con un ritmo micidiale. Ne abbiamo parlato con lui, Paco Ignacio Taibo II, arcangelo tonante con la passione della Coca Cola, dell’ironia e della giustizia poetica, sfornatore di antieroi tra i più malmessi eppure seducenti della letteratura.
Perché riproporre oggi “A quattro mani”? Nella premessa c'è scritto che «qualsiasi somiglianza con la realtà è colpa della realtà, che di certo ogni volta diventa più strana». Ce ne sono tante, di queste colpe?
«Il cuore del libro è la disinformazione: uno dei fenomeni più attuali. Ci sembra di vivere in una società informata, ma in realtà dominata da quello che io chiamo rumore mediatico. Metà delle informazioni che ho sono quelle che mi sussurra Alex di notte».
Alex è la forza uguale e contraria a Greg e Julio: mentre loro cercano verità, lui – spia americana e creatore del surreale Shit Department – semina menzogna, avvelena i pozzi dell’informazione in un’era in cui ancora il web non dominava il mondo e nemmeno sapevamo che potesse esistere una cosa come Wikileaks.
Chi può aiutarci, dunque, oggi? Esistono giornalisti come Greg e Julio?
«Sì, esistono, sono i sopravvissuti della grande stagione degli anni 70, gli eredi dei Kapuscinski e degli Hunter Thompson».
La realtà non smette di sfornare cose sorprendenti: cosa pensa delle presidenziali americane? Trump le fa paura?
«È come una caricatura. Ma voi italiani dovreste riconoscere le caricature ed essere abituati...».
Ma lei sarebbe preoccupato da una sua vittoria? E cosa pensa della stagione, ora al termine, di Obama: è stata deludente?
«Sì, anche se gli Usa negli ultimi tempi non sono stati governati dai presidenti, ma da altre due forze: le forze transnazionali che si esprimono con le lobbies e i sondaggi. Da molto tempo ormai il presidente non ha più un'opinione sua, se non per piccolissime sfumature, e anche un reazionario terminale come Trump sarà bloccato dalle lobbies e dai sondaggi. Riguardo a Obama non sono disilluso perché non sono mai stato illuso. Il giorno stesso in cui fu eletto io dissi alla radio: tanto, governeranno le lobbies e i sondaggi. La cosa più interessante, invece, è forse un’altra: la crescita importante di un pensiero che identifica Wall Street come la fabbrica del disastro. Un pensiero che si esprime in opposizione alla Clinton...».
È vero che sta scrivendo un libro in cui c’è Napoli, (che certo è una città sudamericana)? Ha mai pensato di farlo con la Sicilia?
«Sì, ne ho scritte cento pagine: tutti i personaggi principali sono di Napoli, ma la storia si svolge in Messico nel 1906, e molto tempo dopo uno dei personaggi tornerà in Italia. In Sicilia sono stato tante volte, mi piace molto, ma non ho trovato un modo di mettermi in relazione con la storia siciliana. Dovrei studiare moltissimo...».
Perché una linfa profonda delle narrazioni di PIT è sempre quel suo «mettersi in relazione» con la Storia: come se la sua narrativa, che pure è d’inventiva brulicante, farcita e rocambolesca, non facesse che tracciare fili e riannodare storie attraverso biografie già esistenti, vicende che avevano solo bisogno d’essere ri-scoperte, orientate, raccontate. «Sono uno storico contaminato dalla narrativa – dice – e un narratore contaminato dalla storia». D’altronde, accanto ai romanzi, la sua produzione di storico è torrenziale, e una pietra miliare della sua opera è la magistrale biografia di Che Guevara, “Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Ernesto Che Guevara” (1996), uno degli eroi convocati più spesso e purtroppo spesso a casaccio, cristallizzato e sepolto nei santini e nei poster. Come non si addice agli eroi.
Gli eroi esistono solo nei libri, e possiamo convocarli per farci salvare? La letteratura serve (anche) a questo, a progettare e sostenere l’utopia?
«L’unico luogo decente per gli eroi è nei libri. C’è bisogno che ci siano, altrimenti non puoi convocarli. Devi metterli sempre in un luogo in cui siano a loro agio: i libri, le storie, anche i film. Tutti i giorni potremmo chiamarli. C’è una specie di ribellione continua, sottile, persistente. Anche oggi una trasformazione planetaria più profonda ha bisogno di un’alleanza tra i movimenti di opposizione e la Hollywood di sinistra, critica e liberale, che sa produrre idee e vestirle e diffonderle. Un esempio? Se scopri un nucleo di superfondamentalisti nelle montagne afgane che fai, lo bombardi? No! Lanciagli un paracadute con un carico di vecchie videocassette di grandi film: appena avranno visto Gilda che si toglie i guanti cambieranno idea...».
Woody Allen, che alcuni giorni fa ha inaugurato Cannes col nuovo film appartiene a questa Hollywood?
«Sì, Woody Allen è un compagno. Un po’ troppo nevrotico, ma lo perdoniamo».
Dobbiamo, possiamo continuare a sperare?
«Per favore, sì. Ieri dicevo ai lettori: sapete qual è la differenza tra i pessimisti e gli ottimisti? I pessimisti soffrono prima, durante e dopo; noi ottimisti soffriamo solo dopo».
Per essere scrittori si deve essere ottimisti?
«Scrittori non so, ma per essere Paco Ignacio Taibo sì».
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