La sceneggiatura è strepitosa, l’ambientazione eccellente, la cura dei personaggi eccezionale, l’estetica sublime, ma, soprattutto, c’è la mano di Paolo Sorrentino in ogni fotogramma di “The Young Pope”, kolossal di Sky, in onda venerdì.
Raramente abbiamo trovato una fiction, che, per quanto fatta bene, riveli l’autorialità, come stile riconoscibile e avvolgente: in “The Young Pope” c’è una concezione cinematografica che va al di là del formato televisivo.
Vi diciamo subito che, in questo momento, tralasciamo ogni giudizio sulla figura di Lenny Belardo, papa inventato, Pio XIII, che apparentemente scardina i santi crismi della Chiesa. Gli aggettivi dispotico e seducente, arrogante e fragile, cinico e inquietante, conservatore e modernissimo che nelle prime due puntate caratterizzano l’impostazione del personaggio, siamo convinti debbano avere una risoluzione finale, un’evoluzione probabilmente spiazzante, che maturerà nel corso dell’opera. Affrettato e parziale, quindi, ci sembrerebbe adesso un giudizio sulla caratura del personaggio, che scompagina e scompensa l’ortodossia, l’etica e l’eresia, laddove impone di violare il segreto della confessione, di recuperare il Triregno venduto, di rendere invisibile la figura del Papa, di emarginare i cardinali non allineati.
Quello che abbiamo visto è un’opera monumentale e rivoluzionaria che non guarda alla tv come un minus e, conseguentemente tratta lo spettatore come un fine intellettuale capace di comprendere sfumature di dialoghi scritti magistralmente, impostazioni culturali che prescindono dal credo, tonalità di psicologia che inseguono la normalità attraverso un fatto eccezionale, quello che porta al soglio pontificio un orfano americano e, attorno a lui, fa girare una serie infinita di personaggi, primi fra tutti la suora che lo ha cresciuto, impersonata da Diane Keaton o un Silvio Orlando in stato di grazia che, con la sua figura del cardinal Voiello, segretario di Stato, per alcuni può sfiorare il macchiettismo ma, in verità, a noi sembra ripercorrere i passi de “Il Divo”.
Il rischio che corre Sorrentino, giustamente infischiandosene e senza lasciarsi corrompere dalla didascalica televisiva, è quello che la serie possa essere interpretata come distaccata, algida, intellettualoide. Noi siamo e restiamo convinti che il sapiente lavoro di scrittura, la perfezione dei particolari, l’illuminazione di un’opera di fantasia, uniti a temi che coinvolgono nettamente il pensiero, metta in moto un raffinato meccanismo dell’intelletto in cui ciascuno, a prescindere dalla propria posizione, possa guardare con occhio diverso alle proprie convinzioni attraverso un’opera televisiva.
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