La città sopravvissuta camminava in mezzo alla città morta, ai suoi frammenti, alle sue ossa in evidenza, alle maschere, ai frontoni, agli archi scomposti e ricomposti, alla pietra bianca o gialla di cui non si sapeva nulla se non che era stata nella “città di prima”. C'è sempre, c'è ancora, dopo più di cento anni, questa frattura, per i messinesi: il “prima” e il “dopo”, un prima di bellezza, pienezza e forza e un dopo di decadenza che non finisce. Una mitologia, certo, che a volte è un alibi a volte un sogno. E stranamente si perpetua – nella città bollata come “senza memoria” – ad ogni snodo della sua vita. Le due città si sono incontrate ancora, con emozione infinita, nei giorni scorsi, alla riapertura del Museo Regionale. La città viva e smemorata, la città morta carica di ricordi. Molto più simili e sorelle di quanto non pensassero. Ed è stato un incontro meraviglioso. Le due città si sono specchiate l'una nell'altra, si sono riconosciute.
Ogni volta che apre un Museo dovrebbe essere festa, come quando apre una biblioteca o un giardino o un granaio. E una festa è stata, in questi giorni. Anche per merito della mostra che accoglie, nei locali della precedente sede del Museo, l'ex Filanda Mellinghoff (ah, il passato depositato nei nomi), i nuovi visitatori.
Ma la mostra, questa mostra (aperta fino al 5 marzo) dedicata al “Mediterraneo – Luoghi e miti” e costruita con amore da Nicoletta Boschiero e Gianfranco Anastasio con cento capolavori provenienti dal Mart di Rovereto (ah, l'Italia una e indivisibile della cultura e della bellezza), non è solo un'accoglienza decorativa. Non è solo un'idea d'una direzione sensibile e che ha lo sguardo ben oltre i confini cittadini (un grazie deve andare per questo alla direttrice Caterina Di Giacomo e alla sua squadra). Questa mostra ha una funzione assi più grande ed emozionante: ci rammenta chi siamo. Cittadini mediterranei, d'un luogo fitto di sponde – e lo Stretto più d'altri, col suo mare chiuso eppure verticale ed enorme – e di mitologie. Un luogo in cui si sono inventate le arti e i saperi, in cui si è immaginata ogni idea, ogni forma. Un luogo non di pace, per carità: luogo anche di sangue e di battaglia, di navi di conquistatori e predoni (i peggiori, quelli con le bandiere e le fanfare di reami e principati e repubbliche predatorie), di faglie voraci che spalancano la bocca più di Cariddi, ad appuntamenti convenuti, per inghiottire la Storia. Luogo di guerra, com'è la guerra silenziosa e micidiale che oggi ogni giorno stermina, proprio davanti alle nostre coste, il popolo multiforme e disperato dei migranti.
Ma anche, per ciascuno di noi, il luogo delle mitologie private e della memoria, dei sassi sul bagnasciuga, della barchette di carta, del salotto di nonna, della casa sui colli dove gli scuri chiudevano fuori la canicola.
Il Mediterraneo sociale e intimo, del ricordo e del mito, dell'incubo e della favola. Tutto questo Mediterraneo, tutti questi Mediterranei ci sono, sono qui.
Li hanno dipinti, assemblati, modellati – tra gli altri – Alberto Burri, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Filippo De Pisis, Lucio Fontana, Renato Guttuso, Fausto Melotti, Mimmo Rotella, Alberto Savinio. E i cento capolavori di 33 grandi artisti, tutti eseguiti nel corso dell'ultimo secolo, dal 1913 al 2005, tutti assieme e nel luogo in cui si trovano – l'ex Filanda piantata vicinissima alla sponda dello Stretto, circondata da cespugli di rosmarino e altre piante balsamiche, in cui il percorso interno sfocia nella piccola corte dove statue e frammenti bianchissimi, nel verde, offrono un dono di quiete che è impossibile rifiutare – costituiscono una narrazione potente e imprescindibile delle Origini e dell'Identità, una sorta di camera battesimale perfetta per l'ingresso al Museo Ritrovato.
Le sezioni in cui è articolata la mostra sono altrettante scatole magiche, contenitori di meraviglie che, in realtà, per i visitatori si legano le une alle altre in sottotrame molto personali, dettate dalla suggestione evocativa, dalla capacità di far vibrare le corde di ciascuna anima e storia e sensibilità: ciascuno dunque costruisce il suo percorso – ad esempio – attraverso il “Mito” e l'”Archeologia”, tra gli occhi delle statue, tra le colonne ancora dritte fra le rovine fotografate da Mimmo Jodice (“Mediterraneo”, 1990-1995), e le Muse borghesi, indecifrabili ma con un effetto da madeleine proustiana di de Chirico (“Le Muse in villeggiatura”, 1927), con la sensazione d'essere soli al mondo, ma un mondo appena creato in cui esistono soltanto il mare e il vulcano (non lo avete mai provato, giungendo a Stromboli?), nella piccola opera di Mimmo Paladino “Solo” (1992).
E poi la sala in cui vibrano appena le opere sottili di Melotti, le sue collezioni di lune e i suoi soli d'apocalisse, le sue piogge d'estate e ombreggiature, il suo universo sospeso e metafisico, forse alcune tra le cose più belle in mostra. E i corpi abbaglianti dipinti da Guttuso (“Donna alla finestra”, 1942, “Figure, tavola e balcone”, 1942), la sua energia primaria che riconosciamo come nostra, le sue “Donne dei minatori” (1953) il cui urlo nero è ben più che politico, è in qualche modo originario, e non a caso sta nell'ultima sezione, “Migranti”, dove il cerchio si chiude e tutto – come accade nel tempo chiuso del mito, nel tempo chiuso degli andirivieni sullo Stretto – ritorna.
In controcanto, oltre le suggestioni e a un livello diverso, attraverso le cento opere e le otte sezioni (s'aggiungono “Terra”, “Sogno/Scrittura”, “Casa” e “Istinto/Carnalità”) c'è la grande narrazione del Novecento artistico, la contesa con le forme e i materiali, lo scavo e la superficie, la figura e la sua astrazione, il linguaggio e la sua polverizzazione e rinascita.
In principio era il mare, dice l'opera di Anselm Kiefer “Am anfang” (In principio), del 2003, scelta come manifesto della mostra: una figura geometrica ed esatta sorvola un mare indistinto e vuoto, in un cielo biancosporco e crepato. Forse è Dio, forse il Logos che sta per cadere nelle acque o se ne è appena sollevato, forse siamo a un attimo prima del Big Bang della Bellezza e dell'Identità, forse siamo già a un dopo in cui tutto si è compiuto, le città sono cadute (come Messina nel 1908), gli uomini e i loro orgogliosi imperi si sono inabissati e la Storia sta andando a ricominciare. Forse siamo noi, che ristiamo sul bordo d'una Città Nuova, che ricomincia dal suo Museo, e d'un Mondo Nuovo, che può ricominciare dal suo mare solo se sarà capace di farne non più tomba e luogo di guerra. La Bellezza, in ogni caso, ci aiuterà.
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