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Grammatica amorosa del greco

Grammatica amorosa del greco

Quando ero bambina e vivevo a Reggio Calabria quasi ogni domenica andavo con i miei alla vecchia casa materna, a Santo Stefano d’Aspromonte. Sull’antica strada che torna in città c’è un punto preciso, fra i tornanti, in cui il panorama si apre e appare il mare. Mia madre aveva raccontato a noi piccoli che quando i soldati di Senofonte, nell’ “Anabasi”, dopo una lunghissima marcia, avevano di colpo rivisto il mare erano come impazziti, e avevano cominciato a piangere e urlare «thàlatta, thàlatta», una delle parole – la più misteriosa – che in greco indicano il mare. Ogni domenica, a quella svolta della strada, noi urlavamo «thàlatta, thàlatta». È il ricordo più antico che ho del greco, e del suo posto nella mia vita. Col tempo, ho imparato che il greco s’annida in tanti luoghi, nomi, profili, parole, e a volte la vita non ne fa affiorare la consapevolezza, ma a volte – quando sei davvero fortunato – sì. Se hai il privilegio di fare studi classici, magari d’incontrare docenti illuminati che sappiano cosa fare della tua disponibilità ad appassionarti alle cose (che all’età del liceo è semplicemente immensa), è fatta. Hai visto il mare.
Grazie ai soldati di Senofonte e alle loro lacrime di gioia ho conosciuto Andrea Marcolongo, mentre ancora stava scrivendo “La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco” (che infatti cita a pag. 130 proprio quel passo dell’ “Anabasi”): è stato come scoprire una koinè dell’anima. Quegli studi – che pure erano passati per entrambe dalle forche caudine dei paradigmi da imparare a memoria, dalle infami “gare di piuccheperfetti”, dall’aoristo agitato come spauracchio per adolescenti – avevano seminato bellezza, senso, forme che poi avremmo riconosciuto come “lingua comune”, del sentimento e del bello.
Quest’idea del greco e della sua bellezza di lingua “geniale”, che va molto molto oltre qualsiasi programma ministeriale o dovere scolastico, ma cresce semmai nel terreno delle passioni, è il segreto della fortuna che sta conoscendo il libro di Andrea, grecista, classe ’87, laureata all’Università di Milano, valentissima consulente di comunicazione (lei ha inventato il famoso discorso sulla “generazione Telemaco” con cui l’ex premier Renzi ha aperto il semestre italiano al Consiglio dell’Ue) che vive tra Livorno e Sarajevo. I numeri sono davvero impressionanti: finora 12 edizioni, 58mila copie vendute, la scalata sistematica delle classifiche da quando il libro, edito da Laterza, è uscito (a settembre), fino ad approdare, proprio in questi giorni, in vetta nel settore saggistica.
Sorprendenti perché, tra le altre cose, è un libro che contraddice qualunque luogo comune, primo fra tutti quello secondo cui gli studi classici, e il greco segnatamente, sono, appunto, “lettera morta”, di nessuna attrattiva per i giovani e nessun interesse per il grande pubblico. O anche che un’autrice giovane, ma che non ha nemmeno un profilo Facebook (né una tv a casa), possa compiere un simile miracolo con un saggio che non appartiene ad alcun genere, nemmeno alla saggistica, e piuttosto è un trattato d’amore, una grammatica del sentimento, un manuale di passione.
Lei, Andrea (e nel suo nome, che in Italia di solito è maschile, vibra una parola “forte” del greco: o aner, l’uomo), una spiegazione di questa “stranezza” (che è una parola chiave del libro) la tenta: «Da un lato valgono le parole di Virginia Woolf, tratte da “Del non sapere il greco”: “È al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, dalla confusione; e della nostra epoca”. E se possibile noi lo siamo ancora molto di più. Ma questa è solo una prima chiave d’accesso. La seconda credo sia nel fatto che non è un libro convenzionale, e forse di cui c’era bisogno. Io non parlo di Platone, o di Tucidide, non parlo di declinazioni e suffissi: io parlo della vita».
E il successo trasversale del libro, molto oltre le mille aule scolastiche dove è stato presentato, lo dimostra senz’altro. «Ricevo centinaia di messaggi da lettori di ogni età: da 12 ai 101 anni; la mia lettrice più anziana. E io rispondo a tutti».
Sorride: «Il greco è solo un inizio... l’alfa». L’accesso all’alfabeto dei sentimenti, alle categorie del desiderio e della durata, al senso luminoso dei colori e alle mille forme del mare: tutto questo, e tanto altro ancora, è nel libro, che non è un saggio sul greco o di greco, ma in qualche modo “dal” greco, dal suo cuore chiuso ma ancora fecondissimo e ricco. Con un modo di raccontare lieve e confidenziale, eppure sempre profondo e “dritto al bersaglio” (i greci avrebbero detto “epea pteroenta”: parole alate come frecce).
«C’è tanta solitudine umana, e politica, in un’epoca in cui non sembra contare la passione ma solo l’utilità e l’efficienza. Forse è importante trovare un libro che dà conto della “stranezza” di quanti non vogliono essere efficienti e veloci ma piuttosto appassionati». Che poi sono esattamente le accuse rivolte agli studi classici, alla formazione umanistica che oggi non sarebbe “utile” nel mondo delle merci, della fretta, della quantità, delle “faccine”, i nuovi pittogrammi che sostituiscono le parole e l’articolarsi del discorso. Un mondo al quale il greco, con la sua “strana” attenzione all’ “aspetto” dell’azione, al suo “come” prima che al “quando”, col suo “duale” (che è un numero non aritmetico: un numero della relazione e dell’anima), con la sua «ordinata anarchia» (l’ossimoro è un succoso frutto che nasce sugli alberi greci), la sua libertà ed espressività, potrebbe insegnare molte cose. E forse noi meridionali godiamo d’un vero privilegio, perché molto più d’altri – nei nostri luoghi e fra i nostri nomi tessuti di sillabe greche, passeggiando per i nostri teatri antichi, fra i nostri templi e le nostre colonne – possiamo sentirci vicini a questa “lingua di meraviglia”.
Anche Andrea, che sarà a Messina mercoledì e giovedì e in questi giorni, appena tornata da un viaggio in Grecia, è stata in Puglia, sente la forza e il richiamo del Sud: «M’ha emozionato tornare ad Atene, tornare all'Acropoli, e ora m’emoziona il passaggio in Sicilia». Dovunque, la giovane grecista definisce «entusiasmante» soprattutto il contatto con gli studenti: «Loro contraddicono ogni giorno il modo in cui vengono raccontati. Con la loro curiosità inestinguibile, la profondità, la consapevolezza, la voglia di dignità per le loro passioni».
Anche a Messina e in provincia Andrea incontrerà studenti e insegnanti (ma pure lo Stretto e i suoi miti inestinguibili, la falce della Città della falce, quel sentire greco che ancora ci abita), parlerà del “sentimento della lingua” (che forse è l’unico modo per tradurla con amore e senza sofferenza) e della sua “lingua del sentimento”.
«Che fa parte di noi», dice. E quindi può ancora esprimerci, raccontarci, salvarci.

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