Quando ho sentito quelle parole, ho trasalito. Le ho riconosciute subito. «Tu non ti rendi conto». E poi «Bastiamo io e te». «Lo vedi, non sei affidabile». E «Posso?», pronunciato sommessamente, quasi con un sorriso gentile. Non sono una vittima di violenza di genere, ma, come tutte le donne, o quasi, ho riconosciuto quella polvere impalpabile che in certe relazioni – vissute, sfiorate, sentite raccontare – piano piano si sostituisce all’aria, sfarfallando, sottilissima, impalpabile. Fino a che, guardandola da fuori, una coppia non è completamente avvolta dalla sua propria polvere, e diventa invisibile. Dentro, Lui e Lei non si rendono conto di respirarla, di averla negli occhi, nella gola, sulle labbra, tra i gesti. Si chiama violenza.
Nell’esplorazione del senso e del sentimento Saverio La Ruina, il geniale drammaturgo e attore calabrese di Castrovillari – tra i fondatori di “Scena Verticale”, che tra l’altro ogni anno organizza proprio lì, sul Pollino, una miracolosa “Primavera dei teatri” divenuta appuntamento nazionale – sta analizzando da tempo le relazioni e la violenza di genere, fin dal suo “Dissonorata” (2006), il monologo d’una vittima, che gli valse due Premi Ubu e l’amore incondizionato di migliaia di spettatori (compresa chi scrive), non solo in Italia.
Stavolta lo declina in altra forma: sul palco, tra la “Polvere” (alla Sala Laudamo di Messina fino a domenica)(un’occasione da non perdere), con lui c’è la soave Cecilia Foti, attrice e cantante messinese. Lei, così tenera e solare, incarna alla perfezione la gioiosità fiduciosa che viene progressivamente avvilita e annichilita dalle ossessioni di Lui.
Lui è un fotografo, un uomo colto e di mondo – ma non ci sono coordinate troppo precise, personali sociali o geografiche, per entrambi: incarnano un “codice” applicabile a qualsiasi relazione di qualsiasi latitudine, ceto e condizione. D’altronde, se fate un giro in un qualsiasi Centro antiviolenza d’Italia le somiglianze e le analogie tra le storie e le persone saranno senz’altro molte più delle differenze. Ed è esattamente quello che La Ruina ha fatto: la sua drammaturgia è potentemente attuale e impegnata, vorrei dire addirittura politica, proprio perché, per quanto potente e immaginifica, nasce sempre da una minuziosa indagine (ricordiamo ancora quella alla base di “Italianesi”, del 2011, che racconta alla sua maniera, individuale e universale, la tragedia ignota degli italiani internati in Albania dopo la seconda guerra mondiale), si nutre di storie vere, di dolori reali, la cui sostanza emotiva e verità umana vengono plasmate e restituite, senza sconti, allo spettatore.
È uno spettacolo sommesso e violentissimo, dove solo due volte una voce si alza di tono, e nessun gesto è meno che misurato: lo stesso inganno felpato della prevaricazione. «Sembrava così innamorato» sentiamo dire, abbiamo detto: lo era, ma in un modo malato. Come il Lui di La Ruina, che in molte donne (me compresa) ha suscitato un miscuglio di odio e rancore, di rabbia e paura, tanto la sua apparente calma, la sua attenzione meticolosa stanno sul filo dell’istruttoria perenne e morbosa, dell’ossessione, della volontà d’impadronirsi di tutta Lei, togliendole piano piano ogni luccichìo, ogni colore (Lei perde via via il braccialetto, la maglia rossa ricamata, il canto, la postura: Lui non può che svuotarla nel tentativo di possederla).
Sentiamo salire, piano piano, un sentimento d’oppressione e ingiustizia: quello che dovremmo provare ogni volta che un delitto di genere insanguina le cronache. Forse, più ancora, dovremmo provarlo ogni volta che in una relazione “normale” s’infiltrano semi di quella polvere, la violenza viene deposta come un uovo nel buio, e cresce, alimentata da gesti minimi, parole sommesse, silenzi.
Certo, Lui è pure una vittima, di se stesso e delle sue ossessioni, ma non sta, né potrà stare mai, sullo stesso piano della vittima che è Lei. Lei che lascia agire senza opporsi tutti i meccanismi “classici”, individuati dagli esperti e ben noti, ma qui trasformati da La Ruina in viva sostanza drammatica: controllo parossistico, colpevolizzazione, svilimento. Lui tende a fare il vuoto intorno a Lei, trasforma ogni cosa, anche la più banale (la sedia cambiata di posto, il quadro alla parete), in una sfibrante inquisizione. La polvere, così tossica e velenosa, satura piano piano – nel suo modo insensibile, invisibile agli occhi – l’ambiente, che diventa una camera di scoppio.
Non sappiamo cosa sarà di Lui e Lei: se quel crescendo, quello sfarfallìo che diventa cumulo – che sentiamo anche noi, nel respiro – farà detonare davvero la violenza fisica, o se Lei, che forse nell’ultima scena recupera una postura diritta, forse di ritrovata consapevolezza se non proprio di opposizione, riuscirà a escludere Lui dalla sua vita. Non ha importanza.
Usciamo, come sempre dai lavori di La Ruina, con una trafittura nel cuore, una smania nel pensiero. Nella polvere vorticano cose che abbiamo sentito, saputo, forse agito. Forse la catarsi che ci tocca oggi è questa, quando uno spettacolo di teatro funziona talmente da parlare di noi, profondamente (e per questo sarebbe davvero da proporre ai giovani e giovanissimi, nelle scuole). Perché questo malessere, questa scomodità di cui siamo grati all’autore, questa sensazione è preziosa: ci dice che la nostra anima ha un’ombra.
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Lo spettacolo è una produzione di Scena Verticale, col sostegno del Comune di Castrovillari, White Dove di Genova. Musiche originali di Gianfranco De Franco, contributo alla drammaturgia di Jo Lattari, contributo alla messinscena Dario De Luca, autore anche del disegno luci, aiuto regia Cecilia Foti, audio e luci Mario Giordano, organizzazione e distribuzione di Settimio Pisano. Quadro di Ivan Donato.