A una democrazia, a un Paese in crisi cosa serve? Un leader formidabile? Un partito che riformi lo Stato secondo giustizia? Di più: un poeta. Un poeta che sappia parlare al popolo, aiutarlo a costruire la democrazia, a non farsi buttare fumo negli occhi dai demagoghi (oggi li chiamano populisti), a non farsi intossicare dalle falsità (oggi le chiamano “fake news”, o “fatti alternativi”), a non farsi incantare dai doppiogiochisti e voltafrittate (questi li chiamano anche oggi come allora li chiamavano i Greci: politici). All’Atene stravolta del suo tempo Aristofane aveva proposto, nella commedia “Le rane”, del 405, proprio al limitare della storia della città (che solo un anno dopo soccomberà a Sparta), un orizzonte di speranza: il recupero, dall’Ade, di un defunto “salvatore della patria”. È questa la “missione” di Dioniso e del suo servitore Santia, che nello spettacolo conclusivo del 53. ciclo di rappresentazioni classiche dell’Inda al Teatro greco di Siracusa hanno i volti di un celeberrimo duo comico, siciliano doc: Salvo Ficarra (Dioniso) e Valentino Picone (Santia).
Autentici antieroi, vigliacchi quanto basta e continuamente alle prese coi bisogni, gli appetiti e le emissioni del corpo, i due trasferiscono nelle parole di Aristofane – tradotto in modo agile, mai banale e con abili “attualizzazioni” da Olimpia Imperio – il loro repertorio di duetti, punzecchiature e provocazioni reciproche, lamentazioni paradossali e battute, con gustosa inflessione palermitana, che il pubblico riconosce da subito (godendosela un mondo).
Ed è la prima, sottile trama tesa dalla intelligente regia di Giorgio Barberio Corsetti, che tiene le fila d’uno spettacolo pieno d’inventiva, in cui il gioco del rovesciamento dei mondi, tipico della commedia, si dilata nel rovesciamento ulteriore del viaggio nell’Aldilà. Luogo non meno chiassoso, violento e “indiavolato” dell’aldiqua.
E la parte più divertente è proprio il viaggio di Dioniso-Ficarra e Santia-Picone fino all’Ade (dopo un gustoso “passaggio” dal muscolare Eracle di Roberto Salemi), e all’incontro coi suoi bizzarri abitanti (tra cui il Caronte di Giovanni Prosperi, il Plutone di Dario Iubatti – ma perché Plutone e non Ade, se è Zeus invece di Giove? – l’ostessa di Francesca Ciocchetti, Platane di Valeria Almerighi, Eaco di Francesco Russo). Anzitutto il coro delle Rane, in verde squillante e occhiali neri, il cui gracidio inarrestabile e dissonante è una autentica, formidabile rassegna dei generi musicali: il gruppo canoro dei SeiOttavi (Germana Di Cara, Vincenzo Gannuscio, Alice Sparti, Kristian Andrew Thomas Cipolla, Massimo Sigillò Massara ed Ernesto Marciante) è di una bravura travolgente nel trascorrere, con le sole voci, dallo swing al pop, dal jazz al folk. Facendoci riscoprire quello che sapevamo già: quanto il teatro antico fosse musica prima che parola. E come si possa “inventare” una musica che contenga, della commedia, tutta la ricchezza e le dissonanze.
In una scena continuamente composta e scomposta alla bisogna (opera di Massimo Troncanetti), Dioniso e Santia, sempre presi nel loro dialogo-schermaglia, incontrano anche il coro degli iniziati (i bravissimi allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico intitolata a Giusto Monaco), il popolo un po’ “arancione” (i costumi di Francesco Esposito sono quelli della folla anonima di oggi) un po’ newage, sempre pronto a invocare o inveire, a danzare o dannare (ottimo il corifeo di Gabriele Portoghese): il popolo che, secondo Aristofane, bisogna ammaestrare e guidare, e solo il logos può farlo, attraverso il teatro e i suoi poeti. E infatti, se pure meno direttamente comico, il vero cuore concettuale e scenico della commedia (così come è del testo, preziosissima e raffinata prova di critica letteraria, miniera di citazioni e vero e proprio confronto tra visioni del mondo e della poesia) è, appunto, l’agone tra Eschilo (un ruvido ed efficace Roberto Rustioni) ed Euripide (un Gabriele Benedetti in sciarpa rossa e mossette che ricorda un certo preciso archetipo d’ “uomo di spettacolo” contemporaneo).
Tra le incursioni comiche di Dioniso-Ficarra e Santia-Picone, la “messinscena nella messinscena” con le perturbanti marionette di Einat Landais (ispirate alle sculture “materiche” di Gianni Dessì, costruite da Carlo Gilè e “coreografate” da Marzia Gambardella), gli spiazzanti video girati in scena da Igor Renzetti e proiettati sullo schermo – i faccioni di Dioniso-Ficarra, i versacci di Santia-Picone, l’happy-hour-orgia di Euripide, i cipigli grifagni di Eschilo – in una contaminazione di piani e linguaggi di estremo rigore e abilità, la commedia raggiunge l’acme, il calor bianco del suo messaggio politico, l’ultimo che Aristofane cercò di mandare alla sua sventurata città, forse quello che possiamo distillare anche oggi per noi.
E dalla sarabanda e dal caos emerge una nitida immagine finale, affidata allo schermo e alla sua capacità di riportare in vita (proprio come accade nella commedia, forse come fa sempre la poesia): appaiono Ezra Pound e Pierpaolo Pasolini, in uno storico incontro del 1967, una “pacificazione” fra mondi poetici diversi, fra un Eschilo e un Euripide, conclusa dalle parole di Pound: «Pax tibi... pax mundi...». Eccolo, il messaggio di Aristofane. E' arrivato.