Naufragi e approdi: potrebbe essere anche detta solo così, la vita. Un sistema, casuale o forse no, caotico o forse no, di naufragi che ci disperdono e approdi che ci raccolgono. Ogni morte che ci attraversa, ogni distacco, ogni abbandono è un naufragio; eppure ogni legame che saggiamo, ogni frammento d’amore o di bellezza che ci punge come una magnifica spina è un approdo. La vicenda di Davidù, l’io narrante di “Appunti per un naufragio” (Sellerio) – l’ultimo romanzo di Davide Enia, giovane e geniale drammaturgo, attore, regista, romanziere palermitano (che ha appena parteicpato, col suo potente "Scene dalla frontiera", al progetto "Ritratto di una Nazione - L'Italia al lavoro. Venti quadri teatrali dalle regioni del Paese) – e del suo rapporto col padre, taciturno medico in pensione, e lo zio Beppe, compagno segreto di gioie e delusioni infantili e poi in qualche modo approdo, in età adulta, d’un modo condiviso di sentire, è però inscritta in un sistema di naufragi e approdi che è, in questo momento, la più dolorosa e cruciale dei nostri tempi: quella dei migranti che vanno verso Lampedusa. Perdendosi, a migliaia, per le strade di sabbia e d’acqua; trovandosi, a migliaia, al limitare di due continenti che li respingono in modo diverso. Tendendo a quell’isola nera e spoglia il cui nome è sia “lepas”, lo scoglio che scortica, roccia dentro l’onda, sia “lampas”, la fiaccola nel buio. «Un chiummo ma anche una piuma”.
Cittadino elettivo di Lampedusa, storiografo di naufragi e approdi, Davidù – che è proprio lui, Davide Enia il romanziere siciliano – ha scritto un libro in qualche modo urgente, perché è necessario, in questo momento, sapere cosa accade, e non solo con l’occhio dei media che tutto macina nel suo tritacarne quotidiano: romanzo e autobiografia, reportage e lirica, testimonianza e riflessione, questo libro è molte cose assieme, sta al confine di molte narrazioni, come una Lampedusa di parole che continua a scorticare eppure splendere, al confine tra i continenti e le placche terrestri in continuo conflitto.
In qualche modo è lo sguardo, il protagonista del libro. Quello di Davidù, che interroga con le parole del drammaturgo e del romanziere le persone: i locandieri, il samurai-comandante, il sommozzatore, la dottoressa, il falegname, il becchino; quello di suo padre, che fotografa i dettagli e le ombre, il muto dialogo delle cose, che è altrettanta ricerca di parole; quello di chi è interrogato e racconta il suo pezzo di storia, il suo naufragio e il suo approdo. Quello che unisce padre e figlio, che si cercano e si toccano – approdo l’uno dell’altro – senza parlarsi. Quello che noi, uomini e donne di questi giorni – che pure sono occhiuti e mediatici e digitali e illusi che non sfugga nulla a nessuno – , cerchiamo di trovare, perché dal sistema di naufragi e approdi di Lampedusa sgorgano domande fondamentali, questioni capitali a cui non si può sfuggire: la vita, la morte, l’etica, ciò che definiamo umanità. Questioni che sembrano del tutto assenti, espulse dal pur feroce dibattito pubblico sui naufragi di Lampedusa, sugli approdi necessari.
Enia racconta, a un certo punto, che in tanti testimoniano la stessa cosa: «Chi annega, spesso urla il proprio nome». Che sia assassinato dagli scafisti o tradito dall’onda, grida quel suo nome, perché gli altri sappiano. Forse è questa, oggi, la missione della letteratura: tocca sempre alla letteratura avvicinare lo sguardo, e, nel naufragio delle cose, trovare l’approdo di una parola, di un nome.