Venerdì 22 Novembre 2024

Quell' "amico geniale" incontrato in Calabria

Quell' "amico geniale" incontrato in Calabria

A Vincenzo “Teapot”, protagonista del romanzo di Nicola H. Cosentino uscito da pochissimo in libreria, “Vita e morte delle aragoste” (Voland), forse non riuscirà di «scrivere, dalla Calabria, il Grande Romanzo Americano». Di sicuro Cosentino scrive, dalla Calabria, un bel Romanzo Contemporaneo in cui la Calabria, finalmente, non è scenario di sortilegi mafiosi e culture del male, ma un luogo qualsiasi, in cui a Vincenzo e al suo cantore, l'amico e io narrante Antonio, capita d’incontrarsi da ragazzini, crescere e vivere pezzi di vita in quegli anni gloriosi in cui tutti siamo al centro del mondo eppure, oscuramente, nelle sue segrete.
Ma non chiamatelo “romanzo di formazione”: il bel libro di Cosentino – che ha 26 anni, vive tra Cosenza e Milano ed è alla sua seconda prova narrativa – è un raro gioiellino di idee & scrittura, un insieme di quadri – senza concatenazione cronologica ma con vivida concatenazione psicologica – attorno alla figura di un “amico geniale” e al comune, faticoso percorso verso il mondo (che non è detto sia un percorso verso fuori...). Due aragoste impegnate – nell'incontro-scontro col femminile, col mondo, con l'Altrove – a imparare a crescere senza mandare in pezzi il guscio, la corazza, il carapace che ci contiene e ci limita, ci definisce e ci trattiene. Ne abbiamo discusso con l'autore, che domenica sarà al SabirFest di Messina (ore 17, Palazzo Mariani).

Crescere: apparentemente è quello che, nel corso del loro lungo rapporto, capita ad Antonio e Vincenzo. In realtà non sembra esserci un punto d'approdo: il tuo è un romanzo di formazione in cui la formazione non finisce mai. Cos'è, allora, crescere, per la tua generazione?
«Imparare a rilasciare. Se ne parla all’inizio del romanzo, in una delle prime riflessioni di Antonio sul diventare grandi. Ecco, basta concentrarsi sul contenuto letterale di questa espressione: “diventare grandi” significa crescere in dimensione. Nel caso delle aragoste, che non smettono mai di svilupparsi, è una dimensione fisica, mentre nel caso degli esseri umani è una dimensione emotiva e cognitiva. Le prime abbandonano il carapace, si fanno forza e ne creano uno nuovo; noi lasciamo un appartamento, un amore, i nostri genitori, cambiamo idea, rinneghiamo un insegnamento, ci liberiamo di un’amicizia che non splende come agli inizi, tradiamo un maestro. L’empatia nasce dal fatto che, come tutti sappiamo, ogni abbandono comporta dolore, soprattutto in un’epoca in cui siamo abituati ad accumulare compulsivamente, sia i rapporti che gli oggetti: oggi siamo troppo ricchi e troppo fragili per liberarci completamente delle cose che abbiamo amato. Ma la verità è che ogni costruzione necessita di una distruzione, e ogni nuovo amore si erge sulle ceneri di una precedente rottura. Da piccoli ci si immagina la propria linea narrativa, in divenire, come un continuo arricchirsi. Invece la maturità non passa per l’addizione, credo, ma per la capacità di accettare le sottrazioni».

Nel tuo romanzo la vicenda è decostruita, quasi cinematograficamente, in scene che temporalmente sono in un ordine altro, non cronologico ma, come dire, psicologico, quasi fossero flashback di coscienza. Perché questa struttura?
«Volevo ricreare, in un romanzo, la sensazione che avevo da ragazzino quando guardavo la messa in onda di certe serie tv, proposte dalle reti un po’ alla rinfusa. A me l’emozione arrivava lo stesso, tanto da farmi pensare che, in fondo, la suspense studiatissima a cui siamo abituati oggi non sia necessaria – almeno non a tutti i tipi di racconto. Mi rendo conto che questo disordine apparente è una tigre in agguato se stai scrivendo una storia di formazione, che per sua natura richiede una ferrea proposta cronologica che dia senso alle tappe dei protagonisti. Però, punto primo, non credevo, durante la stesura, e non credo nemmeno oggi, di aver scritto un romanzo di formazione. Nel senso che non sono partito con l’idea di collocare il mio libro in un genere letterario (anzi credo non lo faccia più nessuno), e quindi non ho rispettato nessuna regola formale. Tanto Dickens è inarrivabile, cosa lo emuli a fare? Punto secondo: mi è sembrato assolutamente naturale riportare gli eventi per come ad Antonio sarebbero venuti in mente nella vita reale o in una narrazione orale: aneddoti che chiamano altri aneddoti sulla base di un dettaglio, di una reminiscenza. Anche in questo caso, quindi, la decostruzione è stata propedeutica alla costruzione».

La Calabria è parte del set, ma finalmente una Calabria come luogo normale, qualsiasi, riconoscibile dai toponimi, da qualche sguincio di mare o vampa di scirocco, ma nient'altro. Parlaci di questa scelta.
«Arrivo un po’ dopo Brunori, ma nel 2017 tra canzoni e romanzi abbiamo sdoganato anche Lamezia Terme, come ambientazione. Ne sono felice. Vado contro la mia stessa scuola di lettore, che del Sud magico e maledetto ha fatto un vessillo e uno scudo difensivo, ma non ne sentivo più il bisogno. A rischio di perdere fascino, la Calabria presente in questo romanzo è semplicemente casa: marittima, cittadina, di autostrade. Un’ambientazione come tante, che somiglia ai panorami della mia vita, cioè Cosenza e la costa tirrenica, che nel bene e nel male non somiglierà mai alla Bahia di Jorge Amado. Poi, davvero, mi piacerebbe che le regioni non diventassero generi. Alcuni raccontano una terra, e sono bravissimi; io vorrei raccontare le persone, e quindi i personaggi. Adoro la tradizione, chi mi conosce lo sa, ma immaginate se in Spagna scrivessero solo di toreri: che pathos, certo, ma non ci sarebbero Javier Marías o Juan José Millás».

Parli dei personaggi femminili con uno studio attento, osservazioni acutissime, reale amore per i dettagli. Ma anche lo sguardo di Antonio su Vincenzo è di fascinazione. Chi è, in realtà, Vincenzo?
 «Vincenzo è un narcisista dalle buone intenzioni, che si alimenta dell’approvazione e dell’amore degli altri. La sua crescita coincide con la morte delle illusioni, che siano silhouette femminili o ambizioni professionali, e Antonio, o anche Nicole, sono il contraltare di questa ricerca. Ho sempre amato il modo in cui Nick Carraway guarda, e racconta, Jay Gatsby. Per lui, il Grande Gatsby. Durante la lettura, lo sappiamo, l’immagine di Gatsby si sgretola, perde fascino e lucentezza: eppure, nessuno si è mai sognato di dire «Il protagonista del romanzo di Fitzgerald, in fondo, non era niente di che». Ecco, sta tutto qui: credo dipenda dal modo in cui le cose e le persone vengono raccontate. Lo racconti male, senza passione? Gatsby è un forse-ex-criminale rimbecillito dalla passione per la sua ex fidanzata, un po’ cretina pure lei. Lo racconti con fervore, tramite la voce di un ottimo comprimario? È il miglior personaggio letterario del Novecento. Ecco perché quel Great. È grande per Nick, è magnifico per il lettore: non ci sono meriti, forse solo carisma da romanzo, ma tant’è: la letteratura, che in fondo è amore e dedizione per i personaggi, magnifica l’ordinario. Volevo che Antonio magnificasse Teapot allo stesso modo, ben consapevole di una cosa: che ai tempi di Fitzgerald esistevano grandezza e ammirazione, oggi del tutto scomparse. A Vincenzo non resta che un ruolo da Grande dell’epoca hipster, piccolo Gatsby nella schiera ben rappresentata dei mediocri».

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