«C’è una nuova nazione nascosta sotto la vecchia». È fatta di tunnel scavati nella roccia, corre per rettilinei misteriosi, curva chissà per dove, allunga spigoli nel buio. La percorrono chilometri di binari, su cui viaggiano, in orari non precisabili, locomotive vecchie e nuove, carrelli e vagoni, carri bestiame e carrozze eleganti. È “La ferrovia sotterranea” (edizioni Sur, nell'efficace traduzione di Martina Testa) di Colson Whitehead, appena uscito in Italia dopo il trionfo (l'autore ha vinto il Premio Pulitzer e anche il National Book Award) negli Stati Uniti dello scorso anno, quello del passaggio traumatico da Obama a Trump, del Ku Klux Klan che si scopre grande elettore, dello scontro razziale che riprende fiato. Il tutto in un momento in cui lo scontro di mondi opposti, ma non localizzabili con precisione, è la nuova Grande Guerra, con tanto di migrazioni epocali che connettono e assieme sconnettono il pianeta intero.
Ma la nuova nazione è anche quella della protagonista Cora, schiava in una piantagione della Georgia, terza generazione dei deportati dall'Africa. Cora la fuggitiva, come era stata fuggitiva la madre Mabel, come mai avrebbe potuto essere la nonna Ajarry: per via matrilineare, in questo romanzo fitto di personaggi che si definiscono tutti in relazione a Cora e al suo viaggio dentro le viscere – in tutti i sensi – della nazione americana, si trasmette quella cosa imprecisabile e incandescente che è l'identità. Un'identità interamente definita dal rapporto con la schiavitù e l'oppressione criminale del popolo nero, che vediamo declinata in tutte le sue scioccanti forme.
Eppure, è una storia che crediamo di conoscere bene, tanto l'abbiamo vista al cinema e in letteratura, senza risparmiarci alcun dettaglio (e ringraziamo le fontane di sangue finto di Tarantino, che spingendo verso l'assurdo e l'iperrealistico sono state più utili per capire di tante fintorealistiche capanne dello zio Tom). Né Colson Whitehead, scrittore afroamericano d'innegabile fascino newyorchese (a partire dall'aspetto: un Denzel Washington ma più giovane e con le treccine), classe '69, già autore di molti romanzi parecchio diversi per stile, ispirazione e intento (ma in alcuni di essi, “L’intuizionista”, “John Henry Festival”, usciti in Italia per Mondadori e minimum fax nel 2000 e nel 2002, ci sono scene che in qualche modo prefigurano scene e personaggi di questo romanzo lungamente meditato), ci risparmia nulla: fuggitivi arrostiti alla brace davanti a un banchetto di signore eleganti, spettacolini del venerdì nel parco pubblico con linciaggio finale, stupri, programmi di sterilizzazione di massa che avremmo visto solo negli anni del nazismo.
Quello che stavolta spiazza – e ha fatto gridare al capolavoro, per la sua obiettiva intensità (è il classico libro da “tutto in una notte”, e lo dico per esperienza personale. Negli Usa ha suscitato l'entusiasmo di Oprah Winfrey e di Barack Obama) – è il tono del racconto: neutro, appena dolente, fermamente referenziale nei punti più tumultuosi. Cora, d'altronde, riassume tutte le possibili varianti dell'implacabilità della sua condizione di nera, schiava, femmina, fuggitiva. Le subisce tutte, nella sua avventurosa fuga dal Sud verso un lontanissimo Nord (siamo all'inizio dell'Ottocento, come si legge negli annunci di taglie sugli schiavi fuggitivi pubblicati all'inizio di ogni capitolo e provenienti dagli archivi dell'Università di Greensboro): padroni sadici, schiavi delatori, cacciatori di teste, kapò da piantagione.
Ma Cora riesce a fuggire ogni volta grazie alla “ferrovia sotterranea”: un modo di dire che nell'America tagliata in due dallo schiavismo (che infiltra in profondità tutte le relazioni, tra comunità, individui, generazioni) indicava un vero circuito di solidarietà che consentì a migliaia di schiavi di fuggire dal Sud verso il Nord e soprattutto il Canada. Il colpo di genio di Whitehead è immaginare che la “ferrovia sotterranea” fosse davvero una ferrovia, scavata nella roccia profonda dell'America dalle stesse mani (nere) che avevano edificato gran parte della ricchezza di superficie dell'America.
Una distopia, in qualche modo, ma del tutto fuori dai canoni, dal tono, dal linguaggio delle distopie: una distopia storica. E Cora è pressoché l'unica passeggera che seguiamo nei suoi viaggi al buio tra un pericolo e l'altro, tra un'ingiustizia e l'altra, tra un dolore e l'altro. Perché vivere nella violenza genera comunque violenza, anche tra poveri, che si contendono – magari – un metro di terra per seminare rape, un posto più vicino al fuoco, alla benevolenza sempre instabile, sempre pronta a rovesciarsi in furore, dei bianchi.
Avevo molto apprezzato un romanzo precedente di Whitehead, “Zona Uno” (Einaudi, 2013): un'altra distopia, l'epidemia zombie descritta proprio a New York nella contrapposizione tra vivi e morti, tra “combattenti” e “infetti”: un altro mondo diviso in due parti inconciliabili e spietate l'una con l'altra, dove la vera traccia è, seguendo il protagonista Mark (una sorta di outcast, come Cora, che non si identifica appieno coi “combattenti”, di cui pure fa parte con diligenza), il recupero, forse impossibile, d'una stilla d'umanità. Non c'è altro, a distinguerci dagli zombie – o dai razzisti – assetati di sangue.
Quella stessa stilla impalpabile, ci rendiamo conto, è la traccia che continuiamo a seguire durante le peregrinazioni di Cora (un'altra decostruzione, stavolta del romanzo d'avventura americano), attraverso ogni incontro, coi neri o coi bianchi, quelli che la aiutano e quelli che la vessano.
«Le ultime ore avevano fatto sparire gran parte del malessere. Ora gli schiavi potevano affrontare le fatiche dell'indomani mattina e delle mattine seguenti, e le lunghe giornale a venire, con lo spirito rinfrancato, sia pur debolmente, da una bella serata da ricordare e la prossima festa di compleanno da aspettare. Radunandosi in un cerchio che separava gli spiriti umani all'interno dalla degradazione all'esterno». Non c'è redenzione, forse, nella distopia storica di Colson Whitehead, e il ricordo del dolore non assolve e non purifica, ma c'è tenacia, e mani che scavano la roccia, e sempre quella stilla da seguire, così invisibile così persistente, fra le tracce di sangue che segnano le strade del pianeta.