La prima cosa che ti colpiva di lui era lo sguardo: serissimo, concentrato, attento, per rispetto verso l’interlocutore, chiunque fosse. Ma sempre riscaldato da una benevolenza umana, una capacità di empatia e com-passione che faceva rispolverare una parola desueta, preziosa: pietas. Era quello, il suo sguardo. Di chi vuole capire, anzitutto, ma senza rinunciare - mai - a nessuna ragione umana. E infatti si occupava delle tragedie peggiori dei nostri tempi - le mafie, i caporalati, le tratte dei migranti - sempre con quell’orizzonte umano che gli faceva infallibilmente scegliere gli ultimi, gli umili, i senza voce. Aveva qualità desuete, e rare: era un mite, ma senza un millimetro di cedevolezza; aveva il dono dell’ironia, ma fuggiva il sarcasmo; aveva un suo rigore fermo e sereno, un suo garbo pacato che gli facevano attorno un’aura di rispetto e, per noi lettori che amavamo ascoltarlo, oltre che leggerlo, reale devozione. Alessandro Leogrande, già vicedirettore della rivista “Lo Straniero” e collaboratore di RaiRadio3 e diverse riviste e testate, è morto domenica, nella sua casa di Roma, a soli 40 anni, stroncato da un malore (un infarto o un aneurisma).
Era appena tornato dalla sua Puglia (a Taranto, dove era nato, aveva dedicato il suo primo libro, “Un mare nascosto”, del 2000, quando la città dell’Ilva non era ancora di moda, e poi c’era tornato in “Fumo sulla città”, Fandango, del 2013), dove aveva partecipato a “La città del libro” nel Leccese. Il Sud era stato d’altronde il suo primo oggetto d’indagine e riflessione: ne aveva scritto anche nel “Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud” (Mondadori, 2008, poi Feltrinelli, nel 2016). In copertina, due mani legate come da filo spinato, ma è un filare di pomodori, l’ “oro rosso” per il quale lavorano ogni anno decine di migliaia di immigrati. Ed ecco che i temi del Sud vessato e povero s’incrociano con l’umanità depredata, sfruttata e offesa dei migranti. Temi cruciali, per Alessandro e il suo modo di scrivere, di fare giornalismo attraverso reportage belli come narrazioni ma interamente costruiti su dati di realtà. Come ne “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo” (Feltrinelli), con cui aveva vinto il premio Kapuscinski, o nel bellissimo “La frontiera” (Feltrinelli), del 2015, racconto accorato ma fermo – nel suo stile colmo di passione civile ma asciutto, profondo ma misuratissimo – del nostro mondo tragicamente diviso da confini artificiali, da barriere interiori ancora prima che fisiche. La frontiera – una sola, immensa – che passa da Lampedusa e dai Balcani, dalle spiagge greche e dai Cie, dalle periferie degradate e dal nostro stesso sguardo, quando perde l’umanità.
A maggio lo avevo incontrato al Salone del Libro: si discuteva di eroi, con lo scoppiettante Paco Ignacio Taibo II. L’eroe in questione era un mitico giornalista e scrittore argentino desaparecido, Rodolfo Walsh, investigatore per conto della giustizia e della verità. «Io credo – mi aveva detto Alessandro – che l’eroe sia in quella coerenza estrema di pensiero e azione, che è un modello rigoroso che si impone a se stessi, come hanno fatto Ernesto Guevara o Walsh. È quel tentativo di capire, pur nella difficoltà dell’azione, che c’è una necessità dell’azione».
Scrivere era agire, per Alessandro Leogrande: indagare nella Libia implosa o tra i guasti del colonialismo in Eritrea, seguire le rotte dolenti delle Ong e fare domande scomode agli scafisti, ai caporali, ai commercianti di schiavi. E poi raccontarci tutto, con la sua parola sempre ferma, esatta, pure se commossa.
«L’unico antidoto al chiacchiericcio che si fa sistema – mi aveva detto discutendo di fake news e clamori mediatici – è recuperare brandelli di racconto della realtà che sappiano restituire tutto il caos, le zone grigie, la complessità».
Tu lo facevi continuamente, Alessandro, e ci mancherà moltissimo la tua generosa fiducia in un mondo che – con molta cura, molta attenzione, molto lavoro e malgrado molte delusioni – forse, sì, si può davvero rendere migliore.
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