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«Stiamo perdendo il nostro onore e la nostra sensibilità»

«Stiamo perdendo il nostro onore e la nostra sensibilità»

«Scrivo per ricompormi, per raccontare a me stesso come sono fatto, perché le idee si raccontano. Scrivo per correggere la prima impressione di me stesso che avevo da ragazzo». Scrive e racconta, e le due cose sono la stessa: lo vediamo mentre Daniel Pennac, classe ’44, uno degli scrittori francesi più amati in Italia, racconta al pubblico, per lo più di liceali, accorso all’incontro con l’autore dopo la prima messinese di “Un amore esemplare”, spettacolo tratto dal fumetto pubblicato da Feltrinelli Comics. Racconta come gli venne in mente di scrivere “L’occhio del lupo” (Salani, 1984) e descrive, anzi agisce quel lupo – pazzo di dolore per la perdita della compagna – che vedeva ogni giorno camminare avanti e indietro, avanti e indietro allo zoo. E siamo tutti lì, affacciati alla stessa balaustra parigina degli anni 80, a guardare quel lupo con lui e vederci tutto il dolore del mondo. Così accade in scena, in quella strana opera che è “Un amore esemplare”, atto unico (anzi, raro) per fumetti, voci, lingue diverse e attori: lui è proprio Daniel Pennac in persona, voce narrante e io narrato (e tradotto in scena, con forza e garbo, da una deliziosa Ludovica Tinghi), che fa quello che fa sempre – noi antichi lettori siamo pronti a giurarlo – ovvero creare la magica “bolla” dove il lettore-ascoltatore-spettatore viene rapito, ammaliato, condotto per mano dentro una storia.
La storia (vera) di Jean e Germaine, un amore così vivido da riverberare luce attorno a sé, e attrarre nella sua orbita eccentrica il bambino Daniel, poi l’adulto e lo scrittore Daniel Pennac, poi la sua amica, la disegnatrice Florence Cestac, poi la regista Clara Bauer, e infine tutti noi.
Daniel, quel vulcano di energie, parole, immagini, era un bambino “difficile”, prima che un professore illuminato gli indicasse la via: dirigere quella sua divorante immaginazione verso la parola, la pagina, il racconto. La parola-medicina che guarisce. La parola col suo corpo magnifico e rutilante, che s’incarna in Benjamin Malaussène, il “capro espiatorio” protagonista dei più celebri e amati romanzi di Pennac, e la sua folle, strampalata famiglia fondata sull’amore e l’accoglienza (in tempi non sospetti, nel quartiere parigino di Belleville: solo molti anni dopo il tema delle convivenze tra etnie e culture sarebbe diventato un rovello per tutta l’Europa, noi compresi).
La parola che l’ex “bambino difficile” e asino a scuola frequenta al punto da diventarne testimonial entusiasta: professore di lettere, convinto lettore a voce alta, addirittura sostenitore dell’unico metodo finora sicuro per appassionare qualcuno alla lettura: condividerla. Che poi è quello che il bambino Daniel aveva imparato a casa di Jean e Germaine, dove l’amore e la lettura erano la stessa cosa. Perché amore e lettura, guarda un po’, sono la stessa cosa...
«Io li sentivo leggersi l’un altra a voce altra. Poi, da più grande ho partecipato anche io. Jean mi diceva: scegli qualcosa da leggerci. E io sceglievo. Mi ricordo una bellissima lettura che abbiamo fatto di Dostoevskij».
Oggi qui, ma non solo in Italia, si legge sempre meno, specie i giovani che, a un tratto, da lettori forti diventano non lettori. Cosa ci può dire il lettore, il maestro Pennac?
«Oh, sento dire questa stessa cosa dal 1969, il mio primo anno d’insegnamento: i ragazzi non leggono più! Ma rispetto a quando? Al 1918? E non leggono più rispetto a chi? Ai piccoli texani? No, io penso che i piccoli siciliani leggano di più dei piccoli texani. E poi: chi vuole che i bambini leggano? I genitori? No, loro vogliono che si diplomino, non che leggano Sciascia o Pirandello o Camilleri. La prima soluzione è che siano i genitori a leggere. Chiediamoci: ma noi leggiamo? La seconda soluzione è dare l’esempio. Lottare davvero contro i telefonini, gli schermi. I bambini che non leggono sono bambini abbandonati. I genitori sono contenti di farne dei consumatori. Amen».
È affascinante, il professor Pennac, e lo chiamiamo Maestro, come voleva essere chiamato Sciascia, uno degli autori che cita anche quando gli chiediamo della Sicilia: perché le terre le conosci due volte (o mille), attraverso ciò che vedi e attraverso ciò che leggi.
«La Sicilia è un’isola con una letteratura molto forte, magnifica. Comparabile all’Irlanda, voi avete i vostri Joyce. Non la conosco bene, ma l’ho attraversato in autostrada ed è stato incredibile, sono rimasto ammutolito. E perché un Paese riesca ad ammutolirmi dev’essere meraviglioso...».
I nostri Joyce. Pirandello, Sciascia: urlerà quegli stessi nomi in un momento dello spettacolo, quello strano spettacolo che la regista Clara Bauer ha concepito come un andirivieni tra linguaggi e forme, dove ogni cosa è riferita, agita, mostrata ma anche disegnata in diretta, sul momento, dalla rapida matita di Florence Cestac, il cui superpotere è avere un mondo di segni tutti suoi (omini buffi con nasi a patata, eppure dettagli minuziosi e una tavolozza di colori saturi e definiti) ma che in pochi tratti sintetizzano a perfezione un carattere, un personaggio, una storia; dove un attore (il simpaticissimo Pako Ioffredo) impersona ora un tecnico del suono ora il suocero di Jean, ma parla napoletano verace; dove ogni cosa trascolora in un’altra, si ingigantisce o si rimpicciolisce, in una nuova vignetta.
Che bello, l’amore di Jean e Germaine, che nella loro vita incrociano tragedie come la guerra e il nazismo, che vengono respinti dalle famiglie per quell’unione scandalosa (lui marchesino, lei figlia di straccivendoli), e poi anche dal mondo piccolo piccolo della cittadina in cui vanno a vivere, senza che nessuna di queste cose scalfisca l’incanto che sembra circondarli, che semina nel cuore di Daniel i semi buoni della bellezza, dell’ironia, del coraggio, della condivisione. E sappiamo quanto bisogno abbiamo, noi, oggi, nel mondo dei muri e dei respingimenti, di “amori esemplari” del genere.
Il “capro espiatorio” oggi sono interi popoli, sulla cui tragedia sono basate alcune campagne elettorali, proprio in questi giorni, qui. Cosa direbbe Benjamin, il “capro espiatorio” per scelta e destino?
«Benjamin piange. Piange sulla vergogna dell’Europa. Benjamin passeggia sull’argine della Senna e vede persone annegare. E degli spettatori, sulla banchina, che guardano il loro telefonino, bevono birra, mangiano la pizza. Senza far nulla. Ogni tanto c’è un Benjamin che si tuffa. Il nostro Benjamin che si tuffa è in questo momento Sos Méditerranée. Ma quelli rimasti lì, sulla banchina, lo accusano di fare commerci strani, di lucrare. Questa è una vergogna assoluta. In questa faccenda noi stiamo perdendo tutto il nostro onore, la nostra sensibilità umana. E arriverà un giorno, purtroppo, in cui capiremo che abbiamo perso tutto, perché saremo al posto delle persone che stanno annegando adesso. E nessuno ci aiuterà. Io sono molto pessimista, in questo. Ma è come per la lettura: l’unica soluzione è fare quello che dobbiamo fare. Leggere, noi per primi. Leggere ai nostri ragazzi, e tuffarci nel Mediterraneo, salvare le persone e dare l’esempio. Siamo una civiltà che si fa tante domande, senza mai dare l’esempio».
La parola che s’impenna, si scurisce, si corruccia. La parola che pesa, perché nessuno dev’essere un capro espiatorio. Poi, alla domanda: «Quando il prossimo libro sulla Famiglia (che è sottinteso sia la famiglia Malaussène, che noi lettori siamo tutti un poco parenti dei nostri personaggi più amati)?», risponde: «Vedremo. Intanto ne uscirà un altro, “Mio fratello”».
È Bernard, il fratello maggiore, anche lui personaggio di “Un amore esemplare”, anche lui traccia viva e vivida – esemplare – nella sua vita. E poi Pennac socchiude gli occhi un po’ a mandorla e dice, in un sussurro: «Io non sono un capro espiatorio». No, maestro, nessuno lo è. Usiamo le parole per saperlo, per dirlo agli altri. Grazie.

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