Se davvero oggi, in tutto il mondo, le donne – semplicemente – si fermassero, forse si fermerebbe la Terra, e il cielo ci cadrebbe addosso. Se davvero tutte le donne sospendessero – come viene chiesto dai movimenti che in più di settanta Paesi hanno organizzato lo “sciopero” di oggi – ogni attività di cura, assistenza, ascolto, attenzione, vettovagliamento e scudo umano (che sono quelli basilari e universali, nel manuale degli stereotipi di genere) il mondo rischierebbe la paralisi. E forse se lo meriterebbe davvero, visto che in gran parte di esso i diritti umani delle donne non sono garantiti o nemmeno esistono, ma anche nell’altra parte, quella “fortunata” e che si sente superiore, le donne lottano ogni giorno con disparità, diseguaglianze e soprusi. Nelle stanze dorate di Hollywood come nelle campagne dei braccianti a giornata.
Ci dicevamo, in questi anni, che l’8 marzo, con tutto il suo carico simbolico, era passato di moda, ed era diventato poco più d’un San Valentino ma con la mimosa. Sbagliato: nell’anno del #metoo e del “Time’s Up”, della mobilitazione globale contro le molestie e le discriminazioni sessuali, l’8 marzo – comunque la si pensi, comunque si connoti la parola “femminismo” – ritorna come occasione di riflessione collettiva, di ricognizione dello stato dell’arte. L’arte di essere donna e avere una voce che può risuonare con le altre, l’arte di condividere e trasformare (che poi è l’essenza dell’arte della cura), far confluire la propria storia e la propria denuncia in un’azione collettiva. Sì, è politica. Che, non a caso, è femmina.
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