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«Sì, mi sono ripreso il diritto di raccontare la Calabria»

«Sì, mi sono ripreso il diritto di raccontare la Calabria»

Più che una parola, sembra un sortilegio, una formula magica. E, in fondo, ogni narrazione di Gioacchino Criaco – lo scrittore di Africo, classe ’65, dalle cui pagine è stato tratto un bel film che ha avuto eco in tutto il mondo, “Anime nere” di Francesco Munzi – sembra sorgere da un mondo antico e magico, anche quando affronta certe piaghe di oggi. La «maligredi» del suo ultimo romanzo, appena uscito per Feltrinelli, si traduce con «discordia», quella che divide le comunità e perseguita i suoi figli, come certe divinità antiche, ma è molto più che solo «discordia»: «È la brama del lupo quando entra in un recinto e, invece di mangiarsi la pecora che gli basta per sfamarsi, le scanna tutte. Quando arriva, la maligredi spacca i paesi, le famiglie, fa dei fratelli tanti Caini e avvelena il sangue fino alla settima generazione...». I mali antichi, magici e tragici, della Calabria prigioniera della sua miseria, eroica nella sua resistenza, caparbia nella sua sopravvivenza. 
Dalle pagine di Criaco, al suo quinto romanzo (oltre a due antologie), emerge ogni volta la forza contraddittoria di questa regione che è un mondo a parte, estremo e potente in ogni cosa, nel bene e nel male. Il mondo delle “anime nere” e delle “mamme di gelsomino” (a cui sono dedicate le pagine più belle del nuovo romanzo), il mondo dei lupi e degli agnelli, dei santi e dei briganti, del buio e della bellezza. 
Con una voce sempre più autorevole e ferma, Gioacchino Criaco rivendica per intero la storia sconosciuta della Calabria, il suo patrimonio di valore e coraggio, il suo perenne duello con l’oscurità, la sua tenace resistenza. E “La maligredi” racconta, infatti, un pezzo di storia sconosciuto: il Sessantotto aspromontano. Un momento in cui sembrò possibile sovvertire l’esistente, fare la rivoluzione: «La rivoluzione è cambiare tutto quello che non ci piace, fare le cose che non possiamo fare, avere diritti senza passare da un compare». 
Sì, c’è stata, c’è sempre una Calabria che la rivoluzione vorrebbe, potrebbe farla: forse passa anche dalle pagine d’un romanzo, dalla riscoperta orgogliosa d’un passato dimenticato, dalla potenza della lingua, dal valore profondamente “politico” d’un modo di raccontare, di fare posto alla letteratura nel nostro mondo affollato, dal legame sacro che unisce chi racconta a chi ascolta. Sacro e magico, come certe narrazioni, come l’anima della Calabria. 
Ne abbiamo parlato con l’autore, che incontrerà i lettori di Messina domani pomeriggio, alle 18, al Feltrinelli Point.

Tu tenti una cosa molto importante: una narrazione nuova della Calabria. Fuori dagli stereotipi, dai filoni narrativi che pure piacciono tanto al pubblico. Quanto è importante per te, questo statuto narrativo?
«Credo che la Calabria, molto per colpa sua, si sia infilata in una sorta di angolo. È diventato quasi un fatto consolatorio per la nazione, questa rappresentazione della realtà falsata. Penso che servano delle risposte, e in un certo senso io credo di essermi ripreso il diritto di raccontare la Calabria. Non è tanto questione di rovesciare un'immagine negativa, quanto dare un'esatta rappresentazione della realtà. Non è un fatto banale: a volte l'immagine diventa sostanza e diventa un modo per stare ai margini di questa nostra società. Io sono nato in un paese, Africo, che è sempre stato all'angolo, e quindi sono “esperto”. Sì, in questo senso sono uno scrittore da sfondamento». 

 Ci sono fatti storici, alla base del tuo romanzo. Ignoti ai più. Questo recupero ha un valore profondamente politico. Ti senti (anche) uno scrittore politico?
«Io racconto delle storie, e ogni narratore, ogni romanziere di solito tende a precisare questa cosa. Però non nascondo il fatto che la mia scrittura è nata come reazione allo status attuale della Calabria. Questo suo essere pantano e palude, ma anche questo suo essere tenuta ai margini. C'è politica? Certo. Ogni gesto, in fondo, come ogni scritto, ha valore politico. In quello che io scrivo c'è un forte sentimento politico, c'è un impegno a cambiare le cose. Senza troppa enfasi, penso di essere, o almeno voglio provare a essere, uno scrittore “impegnato”: la letteratura costruisce mondi, e io vorrei provare a   far impattare i mondi che costruisco col mondo reale, e provare a determinare un cambiamento nella mia società, nel mio mondo».

    La maligredi, la discordia che fa a pezzi una comunità, quasi come una dea antica, una forza maligna. Dov'è, oggi, la maligredi, e che danni fa? 
«La maligredi è davvero una sorta di maledizione, anzi la peggiore maledizione che gli dei antichi possano scagliare sulla terra. E sulla società calabrese che trae origine da quel mondo antico. Oggi la maligredi continua a essere il risultato degli ultimi cinquant'anni, di una disgregazione sociale avvenuta a partire dal 68, da quel 68 aspromontano che aveva provato a costruire un mondo nuovo e migliore, con un popolo che ancora era innocente, che ha lottato strenuamente per vincere quella guerra, ha perso una battaglia, ma quella sconfitta ha insediato stabilmente la maligredi, la discordia, all'interno della società calabrese. La grande vittoria che vorrei ci fosse è un ritorno alla lotta, ma soprattutto il superamento di quella discordia».
 

 La maligredi, il saltozoppo (titolo del tuo penultimo romanzo). C'è anche un tentativo di rifondare una lingua, di recuperarne parole dimenticate? 
«Io provo continuamente a recuperare la parte migliore del nostro passato. Cerco di farlo in un modo che non sia solo nostalgico, perché la nostalgia non serve a niente. Anzi, credo che bisogna fare tesoro delle esperienze, tutte, della società che ci ha partorito, perché esse ci aiutino ad andare nel futuro, e non a restare ancorati al passato. Lo faccio in tanti campi, lo faccio anche con la lingua. Ho iniziato piano piano a recuperare il dialetto, ma anche parte del patrimonio linguistico grecanico: l'ho fatto nei libri, ma l'abbiamo fatto anche con Francesco Munzi nel film “Anime nere”, che è stato interamente girato in lingua calabrese. Credo che questa esperienza potrà essere in futuro qualcosa di prezioso, un archivio. Non solo per i calabresi: per tutti».
 

Come pensi che uno scrittore, oggi, possa dare una mano a una delle regioni in cui si legge meno in Italia?  
«Anche se non c'è un obbligo a farlo, io credo a questo impegno a cambiare la società. Insieme a me, ci credono tanti altri scrittori meridionali. La società calabrese va scossa. Ci sono, certo, colpe che non appartengono alla Calabria, ma molte altre le appartengono, e fra queste l'apatia, l'ignavia. In questo lavoro di “scuotimento” della Calabria provo anche a insistere sul fatto che si debba leggere. Ci deve essere una scoperta letteraria del mondo meridionale, in particolare magnogreco. Non ho altra strada che battere il territorio, come fanno tanti altri scrittori: paese per paese, senza stancarsi. Bisogna riportare la letteratura dappertutto: nelle città più grandi come nei piccoli paesi, anzi soprattutto in quelli, dove gli eventi letterari assumono una dimensione d'importanza grande».    

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