Il corpo e la parola. Lo spazio che si anima, s'affolla di figure, di suoni, di danze, perché è il corpo che crea la parola. Lo spazio che si sterilizza, diventa cavità risonante delle voci antiche che si fanno nuove, perché è la parola che anima i corpi. Due spettacoli del tutto opposti, per struttura, intendimento, emozione, formano il nucleo principale del 54. Festival del Teatro greco di Siracusa della benemerita Fondazione Inda, capace ogni volta di sorprenderci con un nuovo modo di portare avanti la tradizione. Peraltro, per declinare il tema di quest'anno, “La scena del potere”, non si potevano scegliere due protagonisti più diversi: Eracle, l'eroe muscolare delle imprese impossibili (che non a caso è soprattutto protagonista, roboante e bulimico, nelle commedie) e Edipo, lo sgominatore della Sfinge, «il migliore dei sovrani dentro cui si nasconde il peggiore dei criminali». Diversissimi, eppure accomunati dal ribaltamento repentino e feroce della loro sorte personale a causa di crimini che hanno commesso senza averne responsabilità, ma venendo comunque investiti dalla colpa che ribalta e distrugge il loro status eroico.
“Eracle” di Euripide con la regia di Emma Dante ha inaugurato il ciclo, e si alternerà (fino al 24 giugno) con “Edipo a Colono” di Sofocle messo in scena da Yannis Kokkos. Diversi come il giorno e la notte, come i loro eroi protagonisti.
Potentissimo è l'“Eracle” di Emma Dante, per la capacità della regista palermitana d’incarnare – letteralmente – ogni vicenda e ogni parola, di riempire lo spazio (che pure qui è vasto, profondo, risonante e da brivido) fino all'orlo. Sulla scena cimiteriale creata da Carmine Maringola – un vasto colombario di marmo con decine di foto dei defunti, teschi e persino la tipica scala da camposanto con le rotelle – è centrale il tema della morte, dei suoi rituali (bellissima la scena del lavacro funebre di Megara, moglie di Eracle, l'intensa e femminile Naike Anna Silipo, e dei suoi figli), della sua persistenza dentro la vita. Lo stesso Eracle, che all'inizio è il grande assente, inghiottito dall'Ade (durante la sua ultima fatica: catturare Cerbero, il cane degli Inferi), è dato per morto. E sulla morte imminente dei suoi cari, per volontà persecutoria del tiranno usurpatore Lico, si centra tutta la prima parte d'una tragedia continuamente scandita dal rullo dei tamburi, dalle urla, dai movimenti del coro, ora dervisci rotanti ora vecchi dalle contorte articolazioni che si muovono a scatti e a fatica, componendo visioni d'insieme di grande impatto scenico. I movimenti sono studiati da Manuela Lo Sicco, le musiche (esaltanti e viscerali, senza alcun timore di accostare accenti e generi, dal lamento funebre all'house) sono di Serena Ganci, e non è un caso che entrambe siano collaboratrici di vecchia data della regista, che porta con decisione avanti – realizzandola egregiamente anche sulla scena “difficile” del colle Temenite – la sua idea di teatro che riscrive i codici e restituisce visioni. Tanto che persino quella che era la novità più attesa, ovvero fare interpretare tutte le parti principali a donne – in un “gioco” inverso a quello del teatro antico – passa in secondo piano, quasi inavvertita nella “verità” della “persona” scenica, che prescinde dal genere e vive d'una vita propria e altra.
Così non pensiamo al “genere” davanti ai corpi di Anfitrione, il vero protagonista della prima parte (Serena Barone dalla voce chioccia e rugginosa, come i meccanismi della sua sedia a rotelle), di Lico (l'energica Patrizia Zanco), di Teseo (Carlotta Viscovo), dei tre figli di Eracle (Sena Lippi, Arianna Pozzoli, Isabella Sciortino: nella tragedia non hanno battute, ma la regia di Emma Dante li mette continuamente in gioco, giovani corpi su cui si gioca tutto il dramma dell'affetto, della persecuzione e infine della follia). E soprattutto non lo pensiamo davanti all'Eracle muscoloso ma flessuoso di Mariagiulia Colace, abbigliato come un pupo siciliano-cyborg-amazzone (i costumi, molto belli, sono di Vanessa Sannino), che del pupo ha persino le movenze meccaniche, nella fase iniziale in cui, appena tornato, si trova a fronteggiare la minaccia di Lico alla sua famiglia: è ancora l'eroe in tutto telecomandato dagli dei, un “pupittu” nelle loro mani, e una superstar per il suo popolo (viene accolto come un divo dal coro che sventola fotografie e chiede l'autografo).
Eracle ha un destino beffardo: giunge per salvare i suoi, ma sarà proprio lui a massacrarli, reso folle, per volontà della gelosa Era, dalla malia della dea della rabbia, Lyssa (Arianna Pozzoli): un altro momento assai forte è la straniante danza-disco di costei e di Iride (Francesca Laviosa), dee-aliene (con piume e teste oblunghe e protesi alle braccia), letteralmente “disumane”. Ma proprio da lì comincia l'”umanizzazione” di Eracle, che entra supereroe vittorioso ed esce uomo sconfitto, destinato ma stavolta per scelta – ormai umano, troppo umano – a sopportare per sempre il peso della sofferenza. La traduzione, chiara e agevole, è di Giorgio Ieranò.
All'inverso, una scena prosciugata fino all'estremo, puro campo nudo per la parola (con la sola eccezione della possente, suggestiva struttura che raffigura il busto d'un uomo di spalle, ribadendo il destino del re che ha voltato le spalle al potere, e fra poco lo farà con la vita), è quella di “Edipo a Colono” del franco-greco Yannis Kokkos. Edipo il grande è grande anche nella misera condizione di mendico e ramingo, e nei suoi panni Massimo De Francovich assume superbamente su di sé, con ferma misura e potente carisma, l'intera tessitura d'accenti che Sofocle aveva composto nella sua estrema opera, andata in scena postuma, quando la polis di Atene agonizzava, sotto l'attacco dei nemici esterni e interni.
E il primato di Atene viene ribadito da Teseo (un misurato ed efficace Sebastiano Lo Monaco), sovrano che si fa campione di “philia” e accoglienza nella città in cui «il diritto è sacro e non si fa niente contro la legge»: un'altra faccia del potere, accanto a quella arrogante e aggressiva di Creonte (Stefano Santospago). Edipo impreca e sussurra, invoca e scaccia, supplica e si ritrae, s'appoggia alle figlie (la dolente Antigone di Roberta Caronia, la vivida Ismene di Eleonora De Luca) e si solleva, dolorante e fiero, nobile e gualcito. Una delle scene più belle è fra Edipo e Polinice (un convincentissimo Fabrizio Falco), col padre che maledice e accarezza il figlio, lo abbraccia e lo respinge: un vertice fra i tanti garantiti da un cast di attori di alto livello (ne fanno parte anche Sergio Mancinelli e Danilo Nigrelli), che riscatta un eccesso di staticità.
Sempre molto bravi gli allievi dell'Accademia dell'Inda nel coro: un'impolverata ”umanità in viaggio” (costumi di Paola Mariani) le cui voci si sfanno in sospiro, lamento corale (musiche di Alexandros Markeas). La traduzione è di Federico Condello.
In conclusione, tra i due spettacoli una gustosa dialettica tra “forme” della scena che rende questo inizio di stagione a Siracusa particolarmente interessante.