Scrittrice o – come ama definirsi - “cunta storie” di casa nostra, Catena Fiorello sta vivendo un periodo di grandi riconoscimenti al suo talento. Dopo la pubblicazione del suo recente scritto “Un amore fra le stelle”, una nuova edizione del suo romanzo d’esordio “Picciridda” – riscritto dall’autrice ed edito da Giunti nel marzo 2017 - ha ricevuto l’Elsa Morante Ragazzi all’Auditorium Rai di Napoli il 22 maggio scorso. Dopo il Premio Charlot Libri, ritirato a Salerno il 28 luglio scorso, altri due riconoscimenti l’attendono: il Sulana d’Oro, il 7 agosto a Borgata Costiera (Mazara Del Vallo) e il Sipario d’Oro il 10 a Joppolo Giancaxio (Agrigento). E’ attualmente in lavorazione la trasposizione cinematografica di “Picciridda”, diretta da Paolo Licata e scritta dalla Fiorello col regista e Ugo Chiti.
Dal contenuto dei tuoi libri potresti essere definita una “narratrice del Sud”. Per raccontare un luogo bisogna sentire di appartenervi o, come Salgari, usare solo la fantasia?
“Non credo sia necessario vivere in un posto per raccontarlo. Se vuoi scrivere una storia su un luogo puoi anche andarci e basta, come io ho fatto col Salento. Il posto dove sei nato e cresciuto in un certo senso non ti consente di avere lucidità e obiettività sufficienti per raccontarlo. Ci vuole soprattutto distacco per parlare di un luogo. Io riesco a parlare della Sicilia perché ci vivo lontana da anni: è come un vecchio amore di cui ti ricordi. Sono convinta che se ci vivessi non riuscirei a narrarla”.
I tuoi scritti hanno un meritato successo. Quale credi che sia il loro punto di forza?
“Come l’hashtag in uso su Instagram, direi che i miei racconti sono “no filter”. Non ho mai voluto mettere filtri di ipocrisia nella scrittura, perché credo che le persone siano in grado di capire. Mi definisco una “cunta storie” più che una scrittrice: narro fatti, storie familiari e non, sentimenti, immettendoli nella vita sociale e politica del periodo storico raccontato. Attraverso l’esperienza ho imparato che non puoi dissociare il contesto dalla storia su cui stai lavorando, perché la realtà sociale influenza molto la vita delle persone e le loro scelte. Se isoli il fatto dalla Storia, il racconto perde sicuramente una parte della sua efficacia. Questo bisognerebbe tenerlo sempre presente”.
Quando ti sei accorta che la scrittura rappresentava una passione da condividere con gli altri?
“L’ho capito dopo i trent’anni. Questa passione l’avevo già ai tempi del liceo classico. Scrivevo, ma lo facevo solo per me. Da ragazzina guardavo ai grandi maestri della letteratura e pensavo di non essere degna; avevo pudore a condividere i miei scritti con gli altri. Quando inviai la bozza del mio primo libro, “Nati con la camicia” - con interviste a personaggi che si sono fatti da sé - ero convinta di ricevere un secco no dalla Baldini & Castoldi. Invece a Dalai, mio primo editore, piacque l’idea e ci provammo. Dopo la pubblicazione mi disse ”perché ti devi sprecare realizzando libri di interviste? Meglio lavorare su un romanzo, visto che sei in grado di farlo e hai scritto una prefazione bellissima. Per me tu sei nata per raccontare”. Da lì è iniziato tutto”.
Il clima familiare ha contribuito a sviluppare questa tua capacità? In famiglia siete un po' tutti narratori, ognuno in maniera diversa…
“Sicuramente siamo nati in una famiglia che ha incentivato l’ascolto e il racconto, perché i miei genitori sono stati aperti e stimolanti da questo punto di vista. Oggi tanti spingono i figli a fare i talent o le sfilate. Loro invece hanno sempre accettato le nostre scelte, senza dirci che cosa avremmo dovuto fare. L’unica imposizione, se vogliamo chiamarla così, è stata quella di studiare, di conseguire almeno il diploma. Ci dicevano “noi non possiamo darvi nulla di materiale, ma almeno possiamo farvi studiare e questa è la più grande libertà che avete”. Mamma ci ripeteva “se avete studiato nessuno potrà mettervi i piedi in testa””.
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