"Questo libro è un reportage dal teatro di guerra della mia mente». Firmato Andrea Pomella, lo scrittore romano – classe ’73 – che nel suo nuovo libro, “L’Uomo che trema” (Einaudi, pp.219 € 18,50) – presentato a Cagliari in un’anteprima organizzata dal Festival Tuttestorie in collaborazione con il Premio Giuseppe Dessì e il Festival Marina Caffè Noir - firma un memoir onesto, sfrontato, raccontando il suo percorso di vita segnato dalla depressione maggiore sin dalla tenera età. Una scrittura che rifiuta le maschere della società occidentale, parlando al cuore dei lettori senza mai scivolare nel pietismo o nell’autocommiserazione. Pomella – che nella scorsa stagione era giunto nella dozzina del Premio Strega con “Anni Luce”, (add editore) – riavvolge i nastri della memoria tornando all’infanzia, una chiave di volta fondamentale che verrà sovvertita con l’arrivo di un figlio, accettando la paternità come l’inizio di una nuova vita.
Perché ha scritto un memoir per raccontare “la cattedrale della sua depressione maggiore”?
«Avrei potuto scrivere in terza persona, ricorrendo alla fiction per mettermi in salvo. I fatti sarebbero stati i medesimi eppure tutto sarebbe cambiato. Credo che il memoir, la non fiction, sia lo strumento letterario ideale per raccontare la realtà, la mia realtà, un pezzo del mio percorso di vita senza mistificazioni. Ho scelto di raccontare la mia vita, il mio mondo, senza alcun pudore».
Chi è l’uomo che trema?
«Passiamo tutta la vita a cercare di capire chi siamo. Io l’ho fatto, tutti noi lo facciamo di continuo. Dobbiamo necessariamente passare attraverso il mondo, confrontandoci con gli altri e le loro attese. Ecco, l’uomo che trema è la persona che ho trovato alla fine di questo percorso. Non trema perché ha paura, trema perché è vivo, come le foglie al vento».
Da qui il suo bisogno di scriverne?
«Credo che la scrittura sia un fatto sociale. Non si scrive per sé stessi, si scrive per un pubblico. Ci sono molti aspiranti scrittori che si fermano sul profilo delle intenzioni, invece uno scrittore vero ha necessità di raccontarsi, nonostante tutto».
Sin dalle primissime pagine lei mette tutto sul piatto, dichiara di soffrire di depressione e di volersi raccontare.
«Una scelta necessaria. Nel giugno del 2017 stavo passeggiando nel parcheggio della scuola in cui lavoro. All’improvviso ho provato il più alto grado di insignificanza rispetto a tutto ciò che mi circonda, non era la pesantezza dell’essere, che avevo già provato in passato, piuttosto la sensazione di essere immerso in un mondo ostile e sconosciuto, da cui era bandita qualsiasi umanità. Mi sentivo come l’ultimo uomo sulla Terra, una totale desertificazione di affetto e odio in cui non c’era più nulla. Una forma suprema di spavento».
Il suo psichiatra le ha chiesto di raccontarle la storia della sua depressione. È stata una rivelazione?
«Sì perché raccontandola mi sono reso conto che questa non poteva essere disgiunta dalla storia della mia stessa vita. Dunque la depressione era un elemento inscindibile nello svolgimento della mia esistenza».
A questo punto per lei è stato necessario riavvolgere il nastro dei ricordi. Cos’ha compreso guardando nel passato?
«Ciò che avevo rubricato come una generica infanzia travagliata, aveva a che fare con un abbandono del padre. Ma non nel senso di un padre che lascia il focolare, al contrario, sono stato io ad abbandonare mio padre. A otto anni, dopo un divorzio molto traumatico e doloroso, ho deciso con coscienza di non voler più vedere mio padre. Un giorno gli ho consegnato una lettera in cui spiegavo questa decisione e per 37 anni ho tenuto fede a questo ostinato e scriteriato proposito, escludendolo dalla mia vita».
Lei sottolinea lo strettissimo legame della malattia con il suo corpo. Per questo indossa sempre un contapassi al polso?
«Sì, l’attività fisica è parte integrante della terapia prescrittami. Correre o camminare ogni giorno è necessario per alleggerire il corpo e snebbiare la mente, tonificando la creatività. Uno dei miei itinerari preferiti mi porta sino a Casa Berto, il nume tutelare di questo libro, da Ponte Milvio sino alla Balduina. Andare sino a casa Berto e poi tornare indietro, a casa mia, è un potente atto simbolico».
Lei racconta un percorso di vita - non si tratta certo di un manuale di self-help - sinché l’arrivo di suo figlio muta l’intera prospettiva…
«Questo libro è stato scritto quasi in presa diretta. Si tratta di un reportage dal teatro di guerra della mia mente. Ogni sera mi mettevo a scrivere seguendo il dipanarsi delle cose, gli effetti dei farmaci, le controindicazioni e i primi segnali positivi. Sinché, la paternità ha rovesciato la prospettiva. Ho sempre pensato che la figura paterna fosse un peso gravante sulla mia esistenza ma nel momento stesso in cui sono diventato padre è cessata qualsiasi ostilità, quelle ombre nere si sono dissolte all’istante».
E oggi, suo figlio le «spiega giorno per giorno come si sta al mondo».
«Al picco depressivo, quando non mi schiodavo dal divano, mio figlio giocava su di me con i suoi pupazzi. Ingaggiava simbolicamente una lotta a difesa del padre, si riappropriava di me, sottraendomi alla malattia. Io lo chiamo il piccolo filosofo, lui mi ha insegnato più cose di quante io ne abbia insegnate a lui».
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