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Jeffery Deaver: amo il vostro Paese avrei voluto raccontarne... la cucina

Jeffery Deaver

I re del thriller made in Usa, Jeffery Deaver, in viaggio in Italia, dichiara: «Amo il vostro Paese». E aggiunge: «Avrei voluto raccontare la mia Italia in un progetto con Giorgio Faletti. Un libro di cucina scritto a quattro mani. Ma la cosa buffa è che lui avrebbe raccontato le ricette americane, io quelle del Belpaese, partendo dalla mozzarella. Non abbiamo fatto in tempo… peccato».

Jeffery Deaver ha già celebrato l’Italia nel suo precedente libro (“Il valzer dell’impiccato”) «affascinato da tutto ciò che è made in Italy, dalle auto alla tavola. Del resto – prosegue – i miei libri hanno una formula, proprio come la costruzione di una Ferrari o un abito firmato Versace, una cura attenta per i dettagli che si concretizza in una narrazione di 2,3 giorni al massimo, stressando al massimo i miei personaggi».

Originario di Chicago, dove è nato nel 1950, il suo nuovo libro – “Il taglio di Dio” (Rizzoli, traduzione di R. Prencipe) – ruota attorno ai diamanti e ad un efferato serial killer, deciso a far giustizia chiamando in causa il detective Lincoln Rhyme – criminologo di grande fama tetraplegico, protagonista di una fortunatissima serie, ben quattordici, di best seller mondiali di Deaver, dal primo, “Il collezionista di ossa”, del 1998, diventato un film di Philip Noyce con Denzel Washington – e la sua combriccola, una lotta contro il tempo per scongiurare altri morti e una catastrofe ambientale, illuminata dal luccichio dei diamanti.

Perché scrivere una storia sui diamanti?

«I diamanti sono stati considerati sacri per millenni, con una valenza religiosa. In India era vietato tagliare il “cuore di Dio”. Finché l’esplosione del business ha cambiato le regole, depredando la terra e macchiandoli di sangue. Ovviamente i diamanti ci fanno pensare agli anelli di fidanzamento, ma in realtà sono più connessi ai crimini e agli equilibri geopolitici. I diamanti non sono stati tracciabili a lungo e così, oltre a mandare in fibrillazione il cuore dei ladri, erano il valore al portatore per eccellenza, un modo perfetto ed elegante per riciclare ingenti somme di denaro. E aggiungo una cosa: ormai da tempo l’oro non è più il bene rifugio perfetto, del resto la Russia sta continuando ad ammassare diamanti. Dovremmo capirne le reali motivazioni. Credo che la situazione potrebbe diventare incandescente».

Se i suoi libri fossero una formula chimica, che percentuale di violenza vi troveremmo?

«Lo stretto indispensabile. Scrivo con un taglio cinematografico, dalla prima stesura alla versione definitiva elimino circa 200 pagine e i miei dialoghi sono sempre rapidi. Mi fanno ribrezzo quei libri in cui l’impasse si rompe con scene di violenza gratuite, perché si finisce per banalizzare la storia e annoiare il lettore. Io seguo le regole di Hitchcock, mi interessa la suspense, non il sangue. Quando scrivo un thriller, osservo tre regole: parto dal delitto e dalle sue conseguenze; aggiungo la soap opera, le relazioni personali dei protagonisti, ad esempio il rapporto tra l’investigatore tetraplegico Lincoln Rhyme e la sua collega Amelia Sachs; infine, inserisco l’elemento geopolitico».

A proposito, nel suo libro precedente, “Il valzer dell’impiccato”, raccontava il business dell’immigrazione in Italia. Un tema che è diventato centrale anche negli Stati Uniti, purtroppo. Oggi Trump scommette sulla rabbia e il malcontento, spinge l’acceleratore e fa la voce grossa. Ma dove ci porterà tutto ciò? Gli Stati Uniti oggi sono un Paese lacerato, diviso in due. Quando ero giovane, il mio distretto era rappresentato da un repubblicano che non esitava ad appoggiare le valide proposte di legge democratiche, un uomo flessibile e razionale. Oggi sarebbe impossibile, ci propinano una realtà in bianco e nero, siamo noi cittadini a pagarne le conseguenze».

A suo avviso perché i thriller dominano le classifiche?

«La gente è nervosa, stressata, piena di ansie. Credo che la passione per i thriller sia la contropartita necessaria per questa squallida vita politica che ci propinano, senza passione e fatta solo di urla e panico. Gli americani hanno bisogno di evadere, mi creda».

Altri progetti in cantiere?

«Mi affascinano Sky e Netflix. Ho lavorato ad una sceneggiatura originale su un tema molto caldo negli Stati Uniti, ovvero le ripetute violenze di poliziotti bianchi contro soggetti disarmati e le minoranze etniche. La serie si chiamerà “Uno, cinque”, dal nome di un distretto di polizia americano».

Secondo lei perché i lettori amano Lincoln Rhyme?

«Come sapete Lincoln è tetraplegico, invalido dal collo in giù. Volevo un eroe razionale. Ero stanco di leggere le peripezie di eroi che sul punto di non ritorno ricordavano una mossa di karate imparata da bambini o trovavano un indizio in modo fortunoso, salvando la pelle e risolvendo il caso. No, il mio eroe usa sempre il ragionamento. La sua diversità è la capacità di usare la testa, non i muscoli».

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