Il campo, il pallone, la porta, la bandierina del corner e l'immancabile televisore in bianco e nero delle domeniche sportive. Bastano pochi elementi scenici ad Alessandro Lay per dipingere un duplice ritratto di Gigi Riva: l'uomo e il mito, vita e imprese di un fenomeno del calcio italiano.
Il regista e attore cagliaritano ha portato in scena al Teatro La Vetreria per il cartellone Cada Die il suo "Riva Luigi '69 '70 - Cagliari ai dì dello scudetto" che si è concluso proprio come una delle partite di Rombo di Tuono tra gli applausi di un pubblico entusiasta ed emozionato.
Come il figlio del bomber, Nicola, le nipoti, e Beppe Tomasini, compagno di squadra del Cagliari dello scudetto, seduti in sala. Alessandro Lay in un monologo di un'ora racconta le gesta sportive ma soprattutto il volto umano di Gigi Riva, il ragazzino che rimase orfano di padre e di madre, il giocatore che disse no alla Juve di Agnelli e lo fa intrecciandole a episodi della sua vita personale.
Il regista decodifica la mitologia del "dio pallone" e con un doloroso e a tratti struggente meccanismo di memorie, in un raffinato gioco di specchi, dove il calcio diventa rimpianto e metafora di una complicità mancata con la figura paterna, intreccia il suo vissuto con quello di Riva. Dall'infanzia difficile a Leggiuno, all'arrivo nel 1963 in Sardegna che "in quegli anni era la terra dei banditi, dei pastori, un posto da fuggir come la peste". E poi le imprese all'Amsicora, la nazionale, i gol leggendari come la spettacolare rovesciata a Vicenza, le 252 reti segnate e il record ancora imbattuto di capocannoniere in nazionale.
Sullo sfondo la Cagliari ai tempi dello scudetto, con lo stadio pieno dalla mattina. Frammenti del mito misti a ricordi del regista che non ha paura di confessare sul palco di non essere mai stato "fedele" al calcio, ma vedere giocare Riva è "come ascoltare gli assoli di Hendrix o Coltrane". Arte pura.
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