DeLillo e Murakami sono due facce della stessa medaglia: il postmoderno. Sono due vere e proprie star del postmoderno. Il primo, per accedere al rivelatore mondo della letteratura, scava nella crosta terrena cunicoli così profondi che il lettore rischia lo smarrimento; il secondo si serve anche lui della crosta terrena, ma per costruirci sopra: strutture così ardite e sofisticate che il lettore, citando Wittgenstein, «deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito».
Già, che mondo inaspettato e improbabile è quello di Murakami Aruki! Tutto nei suoi romanzi sembra filare liscio, il lettore non s’accorge di niente. È come se stesse leggendo un libro come tutti gli altri, con una trama piana, personaggi insospettabili, che non promettono nulla di esasperato e di estremo. Poi, a un certo punto, la svolta: ecco spuntare all’improvviso l’uomo-pecora di “Dance dance dance” e un salotto, a Honolulu, dove sei scheletri stanno guardando la televisione; oppure il quindicenne protagonista di “Kafka sulla spiaggia” che sta fuggendo sconvolto dal suo stesso futuro. Come ha fatto notare Giorgio Amitrano, Murakami Aruki scrive rispondendo a un imperativo «misterioso e categorico, con rigorosa precisione di dettagli eppure al di fuori di ogni logica convenzionale, come obbedendo agli ordini dell’inconscio». È come se tua nonna ti offrisse la sua solita crostata alle mele dall’accogliente sapore familiare e tu scoprissi poi che è farcita con funghi allucinogeni.
Ma i suoi romanzi hanno, per così dire, i piedi ben piantati a terra. E che sguardo che è il suo: vede, osserva, scruta nel profondo della società di cui facciamo parte, con una sensibilità artistica che sfiora la perfezione dello scultore che leviga instancabilmente la propria opera. Ecco, le parole che Murakami Aruki sceglie per comporre un solo apparentemente disordinato castello narrativo sembrano soppesate, “lavorate” una per una, con certosina attenzione e rispetto per ciascuna di esse: serviranno a costruire un labirinto letterario di cui solo alla fine il lettore, dopo essersi smarrito, troverà la via d’uscita. E quanto sarà dolce, alla fine, il “naufragar” nel mare narrativo dell’autore di “Norwegian Wood”.
“L’assassinio del commendatore. Libro primo Idee che affiorano” (Einaudi), appena pubblicato in Italia nell’ineccepibile traduzione di Antonietta Pastore, viene dopo il trasbordante “1Q84”. E anche quest’ultima fatica di Murakami è prevista in più volumi. Questo, infatti, non è che il primo volume di un’opera più corposa, che s’intitola: “Idee che affiorano”.
La scelta di prolungare a dismisura il proprio impegno creativo non è affatto un vezzo artistico, non è una forzatura d’autore; ma risponde a una forma d’ispirazione ben precisa. Lo scrittore sente il bisogno di “tentare” il lettore con una forma più ampia, di più largo respiro; chi legge deve fare i conti con quella che, richiamandoci al titolo di un romanzo di Sten Nadolny, potremmo chiamare “La scoperta della lentezza”.
Murakami Aruki, si sa, è un appassionato di maratona. Tutt’ora, a sessantanove anni, ama correre la maratona. E lui stesso, ne “L’arte di correre”, ha descritto il parallelo che quest’attività ha con l’arte dello scrivere. Ebbene, è come se adesso lo scrittore proponesse ai suoi lettori lo sforzo di sottoporsi a una fruizione più onerosa, meno facile del romanzo. Il maratoneta-scrittore chiede ai suoi lettori-maratoneti una prova più faticosa: un’alternativa meno consumistica, che risponde all’imperativo ideologico di contrastare l’avanzare minaccioso dell’immagine del libro-usa-e-getta. Solo in tal modo il lettore potrà sentir crescere dentro di sé la forza sedimentata della parola.
Raccogliere e raccontare in breve, dunque, la storia de “L’assassinio del commendatore” sarebbe ingiusto, oltre che irriguardoso. Roba da risvolto di copertina. Cosa che, per carità, può anche essere utile, per chi entra in libreria e sullo scaffale s’incuriosisce e prende in mano questo volume. Il protagonista di questo libro è un pittore «che sa intuire i segreti dietro i volti delle persone che ritrae». Questo ritrattista, senza nome, dopo essere stato lasciato dalla moglie - ma soprattutto tradito dalla moglie – dopo alterne vicende, regolate dall’assoluta tirannia del Caso e della Coincidenza, va ad abitare in una casa nel bosco. Ha accettato l’invito e l’ospitalità di un amico il cui padre è Amada Tomohiko, uno dei più celebrati pittori giapponesi, ora vecchissimo e impegnato a sprecare gli ultimi anni della sua vita in un ospizio, ormai preda di un’implacabile demenza senile. Qui, nella casa isolata in mezzo al bosco, finalmente lontano da tutti, il nostro ritrattista non conquista pace e serenità, bensì si trova costretto ad affrontare eventi che provengono sì dalla realtà, ma che questa realtà finiscono inevitabilmente col distorcere. Primo fra tutti, l’evento-chiave del romanzo: la scoperta che fa il protagonista nella soffitta della casa immersa nel bosco – il bosco è una delle “presenze” fondamentali dei libri di Murakami: nei suoi libri c’è sempre un personaggio che si smarrisce nella “selva oscura” e che volente o nolente la deve fronteggiare. In quella soffitta scopre un quadro che Amada Tomohiko aveva dipinto molti anni prima e che successivamente aveva nascosto. Soggetto di questo quadro di Tomohiko è la celebre scena del Don Giovanni di Mozart: l’assassinio del commendatore. Ma il protagonista dovrà fare i conti anche col flebile suono di una campanella che agita tutte le sue notti e che lo condurrà alla “dimensione sconosciuta” di un tempio abbandonato.
Murakami dà l’impressione che se volesse potrebbe non smettere più di raccontare… E come il “rubato” contraddistingue la musica di Chopin, la cifra che caratterizza la scrittura di Murakami è la “sospensione”: l’abilità con cui egli riesce a far diventare naturale il soprannaturale. Laddove la ricercata miscela di ambiguo e inquietante acquista un inequivocabile e inconfondibile sapore proprio grazie al magistrale dosaggio che Murakami fa di Oriente e Occidente.
Murakami è il traduttore giapponese di Fitzgerald, di Capote, di Carver; ed è chiaro che quest’attività parallela gli permette una frequentazione preziosa di opere lontane, quanto meno geograficamente, dal suo mondo. E allora un po’ di Wilde (Il ritratto di Dorian Gray), ma anche un pizzico di ghost story, un bel po’ di morboso erotismo giapponese, ma anche una sorta di “bildungroman”, con molta molta musica, da “Der Rosenkavalier” di Richard Strauss alla “Rosamunde” di Schubert. E certo non poteva mancare la “luccicanza” cara a Stephen King, autore a cui sicuramente Murakami schiaccia l’occhio: «Guardate abbastanza in profondità dentro qualsiasi persona e troverete sempre qualcosa che brilli al suo interno». Insomma, signori, il thriller è servito!
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