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Nabokov spiega come leggere, Philip Roth perché scrivere

Achiunque venisse in mente di mettersi a scrivere per provare a tirare avanti nella vita, consiglierei innanzitutto di mettersi a leggere. In particolare due libri appena pubblicati: il primo è di Vladimir Nabokov, “Lezioni di letteratura” (Adelphi, pp. 526, euro 26); il secondo è di Philip Roth, “Perché scrivere?” (Einaudi, pp. 450, euro 22). Calvino, nel suo “Perché leggere i classici”, all’inizio del volume spiega il motivo per il quale ama certi grandi autori in particolare e subito dopo aggiunge: «Nel Novecento un posto chiave lo ha Paul Valéry, il Valéry saggista, che contrappone l’ordine della mente alla complessità del mondo. In questa linea, per ordine di corposità crescente, metterò Borges, Queneau, Nabokov, Kawabata…».

Nabokov, appunto. Il celebrato e osannato Nabokov di “Lolita” e “Fuoco fatuo”. Certo, Calvino pensa a questi romanzi quando fa il suo nome. Ma un Nabokov altrettanto importante è il Nabokov lettore, che non si contrappone allo scrittore, anzi ne è l’elemento fondante. Da scrittore russo, Nabokov diventa dal 1940 in poi – subito dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti – scrittore americano a pieno merito. Tutti i suoi capolavori sono in lingua inglese appunto – da “Lolita” a “Fuoco fatuo”, da “Invito a una decapitazione” alla “Vera vita di Sebastian Knight” – ma bisogna osservare e rimarcare come una conoscenza così vasta della lingua Nabokov l’abbia acquisita grazie a uno studio profondo delle opere dei grandi autori classici. E tra il 1941 e il 1958 egli ha potuto trasmettere questo sapere prima ai suoi studenti del Wellesley College e poi della Cornell University. E adesso, fortunatamente, a noi…

“Lezioni di letteratura” è esattamente questo: la trascrizione di ciò che Nabokov spiegava ai suoi studenti in aula; fra i banchi della quale ora, grazie a questa pubblicazione, ci sediamo anche noi. Miracolo della letteratura: diventiamo ammirati studenti perfino noi, qui e adesso, ascoltando il professor Nabokov che ci racconta di Stevenson e di Joyce, di Austen e di Dickens, e rimanendo a bocca spalancata, come spettatori davanti all’esibizione di un prestigiatore che fa comparire all’improvviso dal mazzo proprio la carta che avevamo pensato. «La letteratura – spiega Nabokov – non è nata il giorno in cui un ragazzo, gridando al lupo al lupo, uscì di corsa dalla valle di Neanderthal con un gran lupo grigio alle calcagna: è nata il giorno in cui un ragazzo arrivò gridando al lupo al lupo, e non c’erano lupi dietro di lui».

L’obiettivo di Nabokov è quello di insegnare innanzitutto ai suoi studenti a leggere, in modo da poter diventare dei lettori meticolosi, attenti, che sanno guardarsi dalla minima distrazione, o dalla semplice superficialità che potrebbe finire con l’offendere, col ferire l’opera che hanno fra le mani. Sette capolavori delle letterature occidentali vengono passati al setaccio: da “Mansfield Park” di Jean Austen a “Ulisse” di James Joyce. L’attenzione del professore per il dettaglio è addirittura “bruciante”. Nelle sue lezioni Nabokov, quando legge Stevenson, arriva a disegnare la pianta della casa in cui si muovono Henry Jekyll ed Edward Hyde, per far capire ai suoi studenti come il doppelgänger del dottore riesca a rientrare dopo i suoi misfatti senza essere visto. «Il mio corso – dice Nabokov – è, tra le altre cose, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie». Sono sette i “misteri” su cui indaga, tra cui anche “Madame Bovary”, “Dalla parte di Swann”, “Casa desolata” e “La metamorfosi”. Per quanto riguarda il capolavoro di Kafka, per esempio, Nabokov s’interroga su che tipo d’insetto sia quello in cui si va trasformando Gregor Samsa, il protagonista della “Metamorfosi”: Nabokov lo disegna quell’insetto (le sue “Lezioni” sono piene di disegni), riesce perfino a misurarlo, spiegandoci quanto sia importante sapere che si tratta di un grosso coleottero (una specie di scarabeo stercorario).

Anche Philip Roth, quando rivela i “segreti” della scrittura, come farebbe un alchimista, il “buon incantatore”, lo stregone alle prese con pozioni e alambicchi, ebbene anche Roth s’intrattiene a lungo sulla fascinazione fatale delle lettura. Basti dire che una parte fondamentale di “Perché scrivere?”, ripropone una scelta delle sue “Chiacchiere di bottega”, in cui l’autore di “Lamento di Portnoy” dialoga con altri scrittori: da Primo Levi (conversazione avvenuta a Torino nel 1986), a Milan Kundera, da Mary McCarthy a Edna O’Brien. “Perché scrivere?” è un libro preziosissimo, che raccoglie saggi, conversazioni e altri articoli e recensioni dello scrittore scomparso a maggio di quest’anno. Si tratta di una scelta fatta dallo stesso Roth della sua produzione saggistica, fra il 1960 e il 2013. «Eccomi qui – spiega – senza i travestimenti, le invenzioni e gli artifici del romanzo. Eccomi qui, privo degli stratagemmi e spogliato delle maschere che mi hanno consentito quel tanto di libertà nell’immaginazione che sono riuscito ad avere come scrittore di narrativa».

Personalmente, ho un debole per la lucidità delle sue “spiegazioni”, quando Roth parla della «spietata intimità della narrativa», per esempio quando un autore riesce a confessare l’inconfessabile. Adoro quando Roth “spiega” per l’appunto “Il teatro di Sabbath”, il suo romanzo del 1995: «In questo romanzo – dice Roth – i cadaveri non sono nascosti sotto il pavimento su cui i vivi danzano la propria vita. Qui anche i cadaveri danzano. Nessuna morte passa inosservata, e nessuna perdita. Qui tutti coloro che entrano in scena, tutti, sono sposati alla morte, e nessuno sfugge al lutto. Ci sono perdita, lutto, morte, agonia, decomposizione, afflizione e… risate! Crasse risate! Pedinati dalla morte e seguiti ovunque dalle risate».

Così parlò Philip Roth, nato a Newark , nel New Yersey, il 19 marzo del 1933, secondo figlio di Bess ed Herman Roth, scomparso a ottantacinque il 22 maggio 2018, sei anni dopo essersi ritirato dalla scrittura. Amen.

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