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Bertolucci ultimo maestro? no, un maestro unico

Il regista Bernardo Bertolucci alla 31/a edizione del Salone Internazionale del libro presso il Lingotto di Torino, 12 Maggio 2018

Ha portato l’Italia nel mondo, ma soprattutto il mondo in Italia. Bernardo Bertolucci – spirato ieri mattina nella sua casa romana (oggi la camera ardente in Campidoglio) – godeva di una personalità innatamente internazionale, sprovincializzante, assai lontana dal contesto italiano ma al tempo stesso profondamente connessa alla vita nazionale, alla profondità delle proprie origini emiliane.

Figlio dello straordinario poeta Attilio, Bernardo Bertolucci era nato a Parma il 16 marzo 1941, nel pieno di quella cruenta Seconda guerra mondiale che avrebbe immortalato in “Novecento”. Fratello maggiore di Giuseppe (prematuramente scomparso 6 anni fa e anch’egli regista di valore), Bertolucci ha saputo portare la poesia nel cinema pur affrontando tematiche “materiali”: l’ideologia comunista, il sesso, l’indagine degli aspetti più intimi dell’animo umano. E affrontandole con purezza di “scrittura” cinematografica, non soltanto nel senso delle parole nelle sceneggiature, ma proprio con quella tecnica peculiare che rende il cinema la “Settima arte”, con caratteristiche autonome rispetto alle altre arti.

Direzione della fotografia, movimenti di macchina, montaggio delle immagini sono le “parole” vere del cinema. E in Bertolucci hanno trovato un creatore eccezionale. Non l’”ultimo” maestro, pur se questo aggettivo gli fu tanto caro (“ultimo tango”, “ultimo imperatore”), bensì “unico”. Come Michelangelo Antonioni, acclamato assieme a lui proprio a Taormina nel 1991 durante il FilmFest nel primo anno della direzione di Enrico Ghezzi. Unico anche come Fellini o Rossellini, tuttavia entrambi più “italiani” rispetto ad Antonioni e Bertolucci. Tutti, e pochi altri, non appartenenti a una scuola di riferimento e destinati a rimanere nella loro cristallinità, senza epigoni.

Eppure Bertolucci amava confrontare il proprio straripante bagaglio culturale con gli altri, senza mai vanitosi sfoggi di sapienza. Come dimostrò in una singolare edizione invernale del Festival di Taormina, nel dicembre 1996, quando grazie alla sua presenza l’incontro con una moltitudine di autori e interpreti divenne una sorta di sessione di “stati generali” del cinema italiano. E come dimostrava sul set, dirigendo con precisione i suoi preziosi collaboratori tecnici (valga per tutti il direttore della fotografia Vittorio Storaro) e gli interpreti, sia italiani (Stefania Sandrelli) che stranieri, già divi (Marlon Brando) o ancora no (Robert De Niro, Gérard Depardieu, Keanu Reeves).

L’unicità di Bertolucci nasce dai fatti: è, finora e per quel che vale, l’unico italiano vincitore dell’Oscar direttamente per la regia (tutti gli altri per il miglior film straniero) con quell’ “Ultimo imperatore” (1987) che trenta anni fa sbancò Hollywood, caso rarissimo di nove statuette per nove nomination.

Ed è l’unico autore ad aver dovuto subire l’onta della censura e del rogo, letteralmente, con le copie di “Ultimo tango a Parigi” (1972) mandate a bruciare nell’inceneritore nel ’76. Una “damnatio memoriae” fortunatamente ribaltata, sul piano giudiziario, dalla riabilitazione undici anni dopo. La “colpa” di Bertolucci? Quella di aver saputo esaltare la fusione tra psicoanalisi e marxismo, tra evoluzione dei costumi e mutazione del senso del pudore, fino a risultare “disturbante” per la sapienza con cui sa andare a toccare le più recondite corde di ogni spettatore.

Sedici titoli (e l’episodio di “Amore e rabbia”, più alcuni cristallini documentari), girati con una maestria che Bertolucci dimostra con la medesima sagacia nei kolossal come nei “piccoli” film. A partire da quelli degli esordi: “La commare secca” (1962), da un soggetto del grande amico Pasolini; “Prima della rivoluzione” (1964), già con sceneggiatura propria e con il sodalizio con l'ineffabile Adriana Asti, sua prima moglie; “Partner” e “La strategia del ragno”, in pieno ’68. Per poi sentire l’esigenza di indagare la “devianza” del fascismo attraverso il romanzo di Moravia “Il conformista” (1970) e poi nel colossale “Novecento” (1976); contesti contemporanei acutamente analizzati in “La luna” (1979) e “La tragedia di un uomo ridicolo” (1981). E dopo “L’ultimo imperatore”, altre indagini sugli incroci culturali: “Il tè nel deserto” (1990) e “Piccolo Buddha” (1993); per tornare a suo modo a situazioni nazionali: “Io ballo da sola” (1996), “L’assedio” (1998) e infine “Io e te” (2012), il suo congedo. Ma nel 2003 “The dreamers”, scandito tra il maggio francese, l’esuberanza sessuale e il contatto col grande cinema: un film forse non totalmente amato dai suoi ammiratori, ma da lui sì, autentico “sognatore” del grande schermo.

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