«L u jire e lu venire Ddeu lu fice»: mi piace partire da questo modo di dire che, da bambino, mia nonna e mia madre mi ripetevano per dare un senso religioso al mio vagabondare negli orti e nelle rughe. Il viaggio – metafora della vita – è anche un atto carico di sacralità. Il Cristo dei racconti calabresi e siciliani «cammina per il mondo» e sconfigge la fame, denuncia menzogne e oppressioni, afferma la verità e la giustizia tra gli uomini. Le Madonne e i Santi del Sud spesso vengono «da tanto lontano». S. Francesco di Paola, tra i più venerati e amati, univa vita ascetica e cammino: è un santo viaggiatore. Non a caso, attraversando miracolosamente lo Stretto con il suo mantello, diventa il patrono di chi prende il mare e degli emigranti. La concezione salvifica del viaggiare e del camminare è un dato delle culture tradizionali del Mezzogiorno e del Mediterraneo, che interessa anche la dimensione dell’emigrazione come ricerca di «mondo nuovo» e di «vita nuova». Il viaggio è metafora di verità in tutte le religioni rivelate. Ce lo ricorda Bruce Chatwin in “Le vie dei canti”, uno dei più bei libri di viaggio della nostra epoca, per rispondere alla domanda quasi ossessiva «Che ci faccio qui?». La risposta è «solvitur ambulando» (camminando si risolve) – scrive Chatwin – «perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene». «La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi». D’altro canto, una lunga tradizione hanno i cantori della vita sedentaria intesa anch’essa come possibilità di conoscenza e rivelazione, come Xavier De Maistre che col suo “Viaggio intorno alla mia camera” (1794) inaugura una stagione dell’errare e della «scoperta» attraverso «viaggi da fermo». Anche il vagabondo protagonista di “Vita di un perdigiorno” (1826) di Joseph von Eichendorff realizza che «amore delle lontananze e amore del focolare coincidono», perché nelle prime è possibile ritrovare il secondo e viceversa. «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni»: il famoso incipit di “Tristi Tropici” di Lévi-Strauss, sottolineando l’associazione tra viaggio e «spaesamento» come tratti costitutivi dell’esperienza antropologica, si pone in una prospettiva spiazzante per una disciplina che presuppone lunghi viaggi per conoscere gli «altri». La rivisitazione da parte di Ernesto De Martino dell’invito dei gesuiti del Seicento a studiare le «Indie di quaggiù» segna l’inizio di una stagione del «ritorno a casa» degli antropologi: noi stessi siamo gli altri per coloro che arrivano da fuori. Studiosi di tradizioni locali, folkloristi ed etnologi individuano un altrove nei luoghi in cui abitano. Il lungo cammino dell’Homo sapiens ci ricorda che la partenza, il viaggio, l’esodo non sono separabili dall’esperienza del restare. Le due esperienze vanno comprese assieme. D’altronde migrare è da sempre una scelta combattuta e divisiva; un dilemma posto di volta in volta all’umanità da miseria, calamità naturali, guerre e invasioni. Insomma, stanzialità e fuga sono due facce della stessa medaglia. La domanda «Che ci faccio qui?» accomuna quindi chi parte, chi torna e chi resta. È l’interrogativo quotidiano a partire dal quale è possibile affermare un nuovo appaesamento e un nuovo sentimento di presenza nei luoghi in cui abitiamo. Per intenderla senza chiusure, per non condannarci a una solitudine in un mondo nel quale non ci riconosciamo, dobbiamo però chiederci anche: «Chi sono gli altri che vivono con me?»; «Quale comunità ho in mente per il posto in cui vivo e abito per nascita, per necessità, per scelta?». «Che ci faccio qui se non riesco a stabilire un rapporto con gli altri, con la memoria e la storia dei luoghi e se non partecipo alla fondazione di una nuova comunità?». Sono domande come queste che, forse, potrebbero aiutarci a immaginare una visione politica lungimirante in grado di contrastare le migrazioni forzate, favorire il diritto di migrare insieme a quello di restare dove si è nati, comunque si configuri la propria identità.