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Fiction, la forza degli archetipi nella serie "L'Amica geniale"

Le due protagoniste

Forse nella vita di tutti c’è una Lila irraggiungibile, fuori scala, geniale in un modo spiazzante. E forse tutti, prima o poi, siamo stati una Lenù, bellina ma non abbastanza bella, o bella ma non meravigliosa, mai meravigliosa. Lila e Lenù sono gli archetipi potenti al centro della serie tv “L'amica geniale” diretta da Saverio Costanzo, di cui attendiamo con ansia le ultime due puntate, martedì in prima serata su Rai1.

Ormai c'entra poco il rapporto tra la serie tv e i libri (della misteriosa Elena Ferrante) da cui è tratta: è evidente che la serie di Costanzo ha una sua propria forza e consistenza estetica che ne fanno un prodotto televisivo del tutto fuori taglia, nel mondo delle nostre fiction pastorizzate. Per la qualità della narrazione, la potenza degli archetipi che smuove, la rappresentazione della violenza pervasiva che è il legame pressoché esclusivo tra i personaggi.

Una violenza verticale, di classi, che pure segna la sostanza in qualche modo omogenea del Rione – il microcosmo concentrazionario, con le sue geometrie sociali invalicabili eppure i suoi codici di riconoscimento salvifici, in cui Lila e Lenù vivono – dell’appartenenza che non si discute e non si interroga, si subisce e basta. Una violenza orizzontale, dentro ogni famiglia, ogni nucleo, dovunque esso si collochi nella geografia sociale e abitativa. Una violenza di genere, ulteriore e trasversale: la più ingiusta di tutte, la più cruda.

I gesti di tenerezza in questo mondo non esistono, o sono pronti a volgersi in furore nello spazio d’un istante. I sentimenti sono assieme istinti primordiali e lussi che nessuno si può permettere.

Le madri sono tutte spaventose: grandi madri steatopigie ma scavate dall’afflizione, dedite in modo autolesionista, sempre circondate e oppresse da bambini (tre, cinque, sei), sempre sottomesse ma colme di rabbia (fa eccezione Melina, la pazza del quartiere, che infatti non si cura dei figli e non nasconde la sua passione malata per il marito di un’altra). Strette tra l’osservanza di virtù arcaiche e nuovo decoro borghese e il collaborazionismo col maschile distruttivo. Incapaci di fare posto alle figlie, alle quali si affrettano a indicare – a cercare di normare – il femminile come calvario, colpa e vergogna da nascondere come il sangue mestruale.

I gesti più generosi – i soli gesti generosi che non siano rivolti ai propri consanguinei, e dunque inevitabilmente mescolati alla tirannide, alla rivalsa, alla distribuzione diseguale del potere tra maschile e femminile – li fanno due donne senza figli: la maestra Oliviero e sua cugina di Ischia. Le fate madrine di questa spaventosa Cenerentola, le dee ex machina (letteralmente fuori dal macchinario sadico della famiglia), portatrici del raggio verde della bellezza. Che è la grande assente e che questi cuori aperti – Lenù, Lila, Pasquale, Enzo – desiderano in modo cocente, anche se non lo sanno.

La maestra porta libri, soluzioni, piani d’evasione, tocchi che non siano solo di spietata durezza. E i libri sono la cosa che brilla, dall’inizio: è un libro che cementa l’amicizia tra Lila e Lenù, il loro patto segreto di sopravvivenza alle leggi del Rione. È attraverso un libro che si riconoscono tra loro, quelli che il Rione possono guardarlo da fuori (e fuori – questa un’altra delle grandi trovate della serie – ci sono persino i colori! Il mondo smette di essere spento, virato seppia, come prosciugato di ogni possibilità cromatica da una luce sempre uguale).

Anche se un libro può essere ingannevole. Dopotutto, lo schifoso Sarratore – prima seduttore della povera Melina e poi molestatore di Lenù – è l’unico tra loro che addirittura un libro l’ha scritto. E lui è gentile invece che brutale persino come capofamiglia, racconta barzellette e non sembra proprio interessato alla vita nell’enclave dei maschi dove si trovano tutti gli altri, in canottiera o con la giacchetta di camoscino, a fumare e scambiarsi grugniti comunque efficacissimi nel veicolare le differenze di censo, di riguardo e di ringhiera. Ma solo perché ha altre malattie: dopotutto, è stato lui a fare impazzire la povera Melina, disorientata da un maschile inimmaginabile (mica poteva saperlo, lei, che esistono cose come il narcisismo parossistico, l’egocentrismo e la seduzione compulsiva; sono cose che nel Rione mai s’erano viste). Sarratore non è tecnicamente un pedofilo, quanto piuttosto un dongiovanni incapace di distinguere la realtà dai propri desideri. E rappresenta, infine, l’altra faccia della medaglia, l’altro inganno.

Magistrale è l’uso del dialetto (ed è sottile la mescolanza con l’italiano nei dialoghi di Ischia, tra personaggi che comunque sono usciti dal Rione e stanno forse affrancandosi anche dai suoi codici linguistici). Magistrale è la scelta dei volti: Rossellini avrebbe approvato (ma anche i Taviani della Notte di San Lorenzo). C’è già dentro tutta la storia. E sì, forse la cosa davvero pazzesca è che una storia così semplice ma articolatissima, così difficile da decifrare eppure nitida, sia in prima serata su Rai1. Una cosa coraggiosa, e giustamente premiata dal pubblico.

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