l paese e il presepe. C’era una volta il Natale e c’era la comunità. C’erano i suonatori che facevano la novena nel cuore della notte e noi bambini che andavamo a zolle per il presepe. Il Natale delle cartelle della tombola segnate con le bucce dei mandarini, degli auguri alle vicine di casa, delle interminabili giocate a stop o sette e mezzo, delle serenate e dei primi veglioni. Si attendeva la Befana con le “susumelle” e i torroni di Soriano e la messa di mezzanotte per assopirsi sognando sulle sedie della chiesa. C’era un volta il presepe e c’era una volta il paese. Non è l’incipit di una fiaba. È l’inizio di una storia a cui posso tornare con la legittima nostalgia di chi l’ha vissuta, ma anche con la consapevolezza che già da bambino ne vedevo l’incanto avvertendone anche il dolore. Mentre con la nonna e la mamma andavo in una bottega del paese a comprare i dolci, il torrone, i quaderni – avevo già capito chi era la Befana – mio padre era in un posto magico e lontano chiamato Toronto. I compagni di quinta presto sarebbero tutti partiti per il Canada. Non era così incantevole quel mondo se in molti si apprestavano a fuggire. Ricordare quel Natale significa, anche, cercare di capire quando e perché è finito. C’era il paese e c’era il presepe: strettamente abbracciati al punto che, come scrive Alvaro, il figurinaio che lavorava la creta a Natale girava per introdurre nuovi personaggi nel presepe, «perché gli stessi Presepi sono trasformati in rappresentazioni della vita locale, con la zingara, lo scemo, il cacciatore, i carabinieri che arrestano un ladro di montagna». Il presepe raccontava il paese, lo rappresentava, e il Natale lo rifondava, rovesciando l’ordine di ogni giorno e riaffermando, a livello simbolico, un tempo nuovo e una vita nuova. Quel paese e quel presepe finivano con lo sfarinarsi di una millenaria civiltà contadina. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia si trasformava. I paesi uscivano dalla miseria ed era in arrivo il boom economico che avrebbe comportato la fine dell’antico mondo. Tanti paesi del Sud e dell’interno si svuotavano, sdoppiandosi e dilatandosi. La Calabria conosceva una dispersione che in breve ha modificato l’organizzazione dello spazio e l’antropologia delle popolazioni. Quello che ancora ieri poteva apparire «troppo pieno» oggi è diventato vuoto. La mia nostalgia del Natale non prefigura il desiderio di un ritorno al passato. Meditare su quella società dove ogni bene era sacro, necessario, significa riflettere, come Pasolini, sul fatto che in un universo in cui ogni bene appare superfluo alla fine la vita stessa diventa superflua. Significa ammettere che se l’Occidente si è desacralizzato la “colpa” non è degli altri che arrivano da fuori, ma che la perdita del sacro è interna alla sua storia. Chi mostra di voler tornare al presepe in maniera chiusa e rancorosa compie un’operazione inautentica e strumentale, perché il presepe raccontava di viaggi, di gente umile, di accoglienza, di aperture. Chi rimane nei paesi organizza presepi viventi. Persone di ogni età e ceto vestono i panni di contadini, pastori, artigiani, soldati romani, magi, della “Sacra Famiglia”. Vengono ricapitolate, a volte in maniera fantasiosa, importanti storie locali. Se il presepe di una volta raccontava la vita, il presepe vivente ricostruisce un paese immaginato e mitizzato, rivela un rimpianto, svela sentimenti di dolore e di insoddisfazione. Rappresenta non il paese com’era e com’è, ma come potrebbe essere, con case aperte a chi arriva e a chi ritorna. Sbaglieremmo a non guardare ai paesi come a luoghi dove elementi tradizionali, arcaici, moderni e postmoderni convivono e interagiscono. Osserviamo il Natale di oggi: internet, panettoni, finzioni, irritazioni, telefonate, giocattoli, PSP costituiscono ormai un continuum con pranzi tradizionali, canti, presepi artistici allestiti in chiese o conventi, messe di mezzanotte, visite a parenti e vicini. Molti studiosi raccontano la resistenza dei paesi, un ritorno la cui decifrazione potrebbe essere utile a scoprire la pazienza e la capacità di svuotare ciò che è inutilmente pieno e riempire ciò che è imperdonabilmente vuoto. Proviamo a rendere più leggere le tavole e meno scarni i corpi di milioni di persone che muoiono di fame e di sete. Rinunciamo ad abitudini mute e sterili e riempiamo i paesi di nuove culture e di altri legami. Forse chi continua a fare il presepe rivolge la propria nostalgia a una nuova comunità da reinventare. C’è ancora il Natale, ci sono ancora i paesi. Dipende da noi saperli cercare e trovare.