Restare Michelle Robinson del South Side all’interno di un tratto di storia tanto più esteso, combattendo contro l’invisibilità che tocca ai poveri, alle donne e alle persone di colore, ma diventando Michelle Obama, quarantaquattresima first lady d’America dal 2009 al 2017, un’avventura che la Obama racconta con passione in “Becoming. La mia storia” (Garzanti, traduzione di Chicca Galli).
Dall’infanzia nel quartiere operaio nel South Side di Chicago fino a Washington nella vertigine della Casa Bianca, e quindi nella “nuova” vita, nella villa di mattoni rossi in una tranquilla via residenziale dove la ex famiglia presidenziale si è trasferita dopo la Casa Bianca. E lì, in quel nuovo posto, eccola pronta a raccontare molte cose, di sé ma anche e soprattutto dell’America, questo grande paese con tutte le sue contraddizioni e con la bellezza della sua gente e della sua realtà.
Quell’America nella quale Michelle è nata da una famiglia modesta ma piena d’amore della working class, mamma Marian e papà Fraser operaio municipale, ma appassionato di jazz e di arte, il fratellino Craig, futura stella del basket, e zie, nonni, cugini, la mischia chiassosa di una famiglia variegata con destini diversi ma tutti consapevoli di essere i discendenti di schiavi d’America. Papà le insegna a lavorare sodo, mamma a pensare con la sua testa; così, dopo aver imparato presto a leggere, eccola frequentare la biblioteca pubblica e suonare il pianoforte della zia Robbie, mostrando già di essere combattiva, con una sorta di fiamma che arde dentro di lei e che i suoi stessi genitori vogliono sia sempre accesa.
Dal primo saggio di pianoforte, all’asilo, alla vita di relazione nel quartiere, alle partite di basket del fratello che aprono frontiere, Michelle, pur capendo presto che le dinamiche fra bambini possono essere contorte, si mostra determinata a stare alla pari con gli altri, con i “bianchi”, sempre con il coraggio di affermare le sue ragioni. Una determinazione che le fa attraversare il flusso di correnti trasversali del suo quartiere, tra famiglie ebree, famiglie di immigrati, famiglie di bianchi e di neri, persone che prosperano e altre che tirano avanti: una varietà che rappresenta la sua prima finestra sul mondo e mette alla prova la sua disponibilità ad accettarne la confusione. E poi la scuola, dove le preoccupazioni di Michelle adolescente possono riassumersi sotto un’unica etichetta: «sono brava abbastanza?». Un mantra di tutta la vita che premia lo sforzo per aprire la porta al caos e avere i piedi piantati nella realtà ma rivolti nella direzione del progresso.
Studio e impegno, sacrifici e ancora relazioni sociali, nonostante la malattia del padre e la limitatezza delle possibilità economiche. Che per Michelle non hanno mai costituito un condizionamento, ma anzi uno sprone ad andare avanti; e infatti gli anni trascorsi a tenere il passo agli ambiziosi ragazzi della Whitney Young le permettono di capire che vale tanto quanto è necessario per far domanda a Princeton, dove viene ammessa nonostante una tutor per l’orientamento le avesse detto che non aveva la stoffa per quella università. Gli anni esaltanti del college le fanno capire che esistono vari modi di essere neri in America, insieme al senso sempre più forte di appartenenza al “Sud” di Chicago e a quella casa di Euclid Avenue dove ha imparato a essere risoluta e pratica.
«Sono brava abbastanza?». Sì, se dopo la Ivy League di Princeton viene ammessa alla Law School di Harvard e quindi a ottenere il primo lavoro retribuito nella sede di Chicago di un esclusivo studio legale. Ormai Michelle guadagna più di quanto abbiano mai guadagnato i suoi genitori, ha scalato la montagna ma presto le cose cambieranno. E quel cambiamento si chiama Barack Obama, arrivato nello studio legale come stagista di cui Michelle deve essere la tutor: lettore onnivoro, intelligenza brillante, ottimismo, sicurezza e serietà fuori dal comune, una personalità quella del giovane Barack pronta ad abbracciare la complessità del mondo con la ricerca continua del sapere. Un abbraccio in cui Michelle si rifugia, imparando ancora a diventare se stessa, ma stavolta insieme al suo uomo, attraverso il matrimonio, la genitorialità e le scelte lavorative.
Nell’America dove il sogno diventa realtà e il cambiamento stimolo a migliorare, Michelle lavora per gli uffici del sindaco, poi per l’università, quindi per l’ospedale della stessa istituzione, e infine per la politica, ogni giorno a vivere senza eccezioni un infinito numero di esperienze: bellezza, fascino, eccellenza, dolore, speranza. E a conciliare gli amori della sua vita, Barack e le figlie Malia e Sasha, con gli affetti familiari, con le amicizie (importanti soprattutto quelle femminili), con i fedeli collaboratori e con tutti coloro che hanno fatto di lei la donna che è diventata, anche i detrattori, quelli che l’hanno definita nera, arrabbiata, donna.
Poi arriva il momento in cui Barack e Michelle diventano qualcosa di più e ottengono quel premio che era ardito persino sognare. Ma è l’America! E Michelle diventa la prima e unica first lady afroamericana a mettere piede alla Casa Bianca; ha imparato, durante l’intensa campagna elettorale, che la politica è l’arte della rappresentazione ma che il potere è consentire a se stessi di farsi conoscere e ascoltare, avere una propria storia unica, sempre apprendendo, perché tuttora, anche dopo otto anni alla Casa Bianca, ci sono tante cose che non sa dell’America, della vita, di quel che potrebbe riservare il futuro.
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