«Che fine ha fatto il futuro?» si chiedeva dieci anni fa Marc Augé nel titolo di un suo libro. La nostra epoca ci appare privata di quell’orizzonte dell’altrove temporale che ha caratterizzato l’esperienza del secolo scorso. Tramontate le grandi utopie, il presente sembra essere divenuto egemonico. La cultura dell’immanenza nega il futuro. Alla tirannia del presente corrisponde anche la mitologia dell’eternità, della gioventù perenne, delle teorie sul superamento postumano o transumano dell’Homo sapiens.
Se, da un lato, l’idea delle magnifiche sorti progressive ci appare oggi in tutta la sua ingenuità, quanto si annuncia o sta già accadendo ci ricorda tuttavia che l’umanità ha conosciuto un alternarsi di periodi felici e di crisi. Anche il proliferare di profezie della fine del mondo è un segno, tra altri, della necessità, della preoccupazione, del timore di un futuro che, malgrado tutto, non può cessare di inquietarci.
Proprio la fine della speranza, di fronte a un senso di generale disfacimento morale e civile, alla decadenza dei valori positivi del mondo occidentale, alla scomparsa di pietas, allo scenario materiale di disastri, macerie, spopolamento, rovine, vuoti ci consegna a un naturale sentimento di disperazione.
È a partire da qui che mi sono avvicinato alla parola «disperanza», che suona come un ibrido di due opposti, disperazione e speranza, come a un possibile spunto per una prospettiva di riapertura al futuro.
Codificata da Álvaro Mutis, essa descrive lo «sguardo» del protagonista della trilogia di Maqroll il Gabbiere; un personaggio caratterizzato dalla rassegnazione attiva di chi ha fatto modernamente, dolorosamente i conti con le umane illusioni. Una figura di errante che, nella sua esistenza circolare, rincontra nei suoi viaggi un amico e una donna amata, in una deriva cosciente nella quale non gli sarà mai dato di tracciare una rotta verso il compiuto appagamento dei desideri.
È Mutis stesso a tentare un inquadramento del termine, per centri concentrici, suggerendoci che esso ha a che fare con la lucidità, l’incomunicabilità, la solitudine e il rapporto ravvicinato con la morte. Provato dai mille inganni della realtà, chi coltiva la disperanza ha imparato a escludere dal suo sguardo qualsiasi speranza che vada al di là dei suoi sensi o di «lievi conquiste dello spirito» e perviene a una forma di superamento del disincanto, profondamente etica e lontana da ogni cinismo, che non postula la necessaria realizzazione dei propri valori.
Se navighiamo tutti in un mare aperto, forse non è tardi per riprenderci la dignità di rifiutare la favola e le menzogne di un pensiero omologante, ricordando anche i rischi di deculturazione e dissipazione intuiti con grande anticipo sui nostri tempi da Corrado Alvaro. Nel passaggio tra vecchio e nuovo mondo, Alvaro si muove sempre tra tradizione e modernità, nostalgia e stupore, pietas per un mondo che scompare e attesa ansiosa e fiduciosa, quasi religiosa, del nuovo; tra disperazione e speranza. I suoi personaggi sono eternamente trascinati da questa doppia corrente di nostalgia: amano, di un amore disperato e deluso, il vecchio mondo contadino calabrese delle madri e il mondo moderno che li affascina e li respinge. Questa melanconia, che non si nasconde contrasti, doppiezze e ambiguità, che conosce la crisi di un mondo, può essere intesa in senso costruttivo come forma di dolorosa consapevolezza di sé e dolente «comprensione» degli altri; come percezione lancinante della perdita di antiche certezze e punti saldi.
Vicina alla disperanza di Mutis nel suo essere, al tempo stesso, sentimento di una disperata condizione di solitudine e desiderio incontrollabile di incontrare l’altro; acuto senso del tempo che trascorre inesorabile e che, contemporaneamente, restituisce l’intensità e la bellezza dell’attimo.
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