Clamorosa come attrice, discreta poi come spettatrice, specie nell’amata Sala Laudamo, che frequentava con costanza e con la gioia di chi il teatro l’ha fatto davvero. E dico clamorosa perché la sua presenza scenica era forte e passionale, istintiva seppur regolata dalle capacità professionali, estremamente femminile, portatrice di una bellezza irregolare in grado di esercitare un fascino speciale. Pur rispettando il riserbo della famiglia dopo la scomparsa avvenuta nel mese scorso, è impossibile non dedicare un ricordo a Giovanna Conti, che, insieme con pochi altri, fu l’essenza del teatro a Messina negli anni Settanta. In un periodo in cui bisognava ricorrere alla fantasia per “inventare” spazi teatrali, a parte l’unico rifugio rappresentato dalla Laudamo, lei, con la sua bravura e con un carisma indiscutibile, incarnò, tra vita e palcoscenico, il ruolo di Musa ispiratrice. Rocco Familiari, drammaturgo che in quegli anni fu regista per il Teatro Struttura, prima di fondare il Festival di Taormina, la ricorda così: «Giovanna era un’attrice sensibile, raffinata e dotata di un’enorme passione, aveva un talento naturale, con una rara capacità di immedesimazione, una bellissima voce calda e un istinto drammatico unico. Quando l’ho conosciuta aveva già interpretato con bravura “Giorni felici” di Beckett. È stata una presenza costante in tutti i testi che ho diretto da regista e ha tenuto a battesimo i miei primi lavori. Aveva una grande duttilità, per cui poteva passare dal ruolo dell'anziana Mamma Baumann de “I tessitori” al serpente tentatore de "I ciechi" di De Ghelderode, al Buffone in “Escurial”, sempre di De Ghelderode, al doppio ruolo di Penteo e Agave ne “Le Baccanti” messo in scena per i teatri greci della Sicilia e delle Eolie, alla Dama di corte nel “Tamburo di panno” di Zeami, rielaborato da Nino Pino in dialetto siciliano col titolo "U tamburu". È stata la prima interprete del mio “Ritratto di spalle” e de “La ballata del silenzio” e “L'acqua e il pane”, nelle università e nelle scuole siciliane. È stato un peccato che non abbia avuto la possibilità di lavorare per teatri istituzionali o fuori Messina». Non a caso, quindi, il libro “Il Teatro a Messina e Taormina negli anni ‘70”, pubblicato da Pungitopo nel 2015, firmato da Familiari (insieme con Gigi Giacobbe) dedica molto spazio alla Conti, in scena dal 1973 con “I fucili di madre Carrar” di Bertolt Brecht, regia di Marco Dentici. Oltre ai lavori già citati, interpretò gli atti unici “L’amante” e “Un leggero malessere” di Pinter, “I Cenci” di Artaud e “Da Parigi a Parigi per mare” di Jarry, con un costante interesse per il teatro non tradizionale, legato alla sperimentazione che allora spadroneggiava nelle cantine romane, ma che a Messina era una novità insolita affidata alla curiosità di pochi teatranti (fra questi anche Massimo Mòllica che, prima di dedicarsi al teatro siciliano, aveva scelto testi impegnati, a cominciare da Ionesco). Una curiosità: in molti di quegli spettacoli c’era in scena anche l’esordiente Nino Frassica. Negli anni Ottanta la Conti si mise alla prova, sempre con ottimi risultati, con altri generi. Ricordo nel 1981 “Splendore e morte di Giuseppe Alesi” di Roberto Laganà, prodotto da Enzo Raffa, con Miko Magistro, in cui confermava un temperamento che la rendeva sempre e comunque protagonista. Nel 1985, ebbe un ruolo di rilievo ne “La corda a tre capi”, di e con Arnoldo Foà, accanto a Maurizio Marchetti. Infine, per capire meglio la forza, unica e spesso trascinante, di Giovanna Conti, riporto una parte della sua testimonianza, come appare nel libro prima citato: «Teatro Greco di Siracusa: “Baccanti” di Euripide; esco di scena come Penteo, per rientrare subito dopo nel ruolo di Agave, madre invasata dopo aver ucciso il figlio; al buio cado dentro una buca stretta e profonda, avevo pochissimo tempo per rientrare, ero disperata, non riuscivo a uscire, ma ce l’ho fatta e al mio rientro in scena il grido “Baccanti d’Asia…” fu più disperato e disperante del solito, con tutto il sangue vero che mi colava dalle gambe e dai fianchi. L’altro episodio è, diciamo, più piccante: “I Cenci” di Artaud, regia di Giuscla Rizzo: interpreto Beatrice Cenci. Scena della tortura: sono appesa in alto per i polsi (faticosissimi minuti al limite dell’asfissia). Quando mi mettono giù, con le parole: “Io muoio e non ho scelto”, strappo la piccola veste che indosso e per la prima volta appare un seno nudo a Messina. Un po’ di scandalo forse, ma anche tanto pubblico».